Ida Travi TA' recensioni

In libreria
Ida Travi TA'
poesia dello spiraglio e della neve 




Moretti&Vitali, febbraio 2011
( Selezione Premio Viareggio 2011)                                                 
pp.160
euro 14,00
in copertina : Omaggio a Fontana
"Sono esseri comuni, sono post. Vivono in un luogo austero. Forse una casa. Forse una ex- fabbrica. Sono uomini e donne dai nomi mondiali Olin, Attè, Inna..." ( Ida Travi febbr. 2011)

ESTRATTI da NOTE e RECENSIONI online
( in calce le note per esteso)

* di Roberto Caracci (settembre 2011)
"---Non siamo semplicemente nella scrittura e non siamo semplicemente agli albori del linguaggio -non potremmo più esserlo-, quando la relazione neo-natale e neo-materna io/tu identificava la comunicazione con la percezione e la risposta al miracolo della pura voce materna. Siamo nella poesia che si volge alla propria origine, che lascia filtrare in sé il suono primordiale del mondo, delle cose, del corpo sonoro della madre...
....E' la tensione fra il dentro e il fuori, con la relativa pro-tensione del dentro verso il fuori e del fuori verso il dentro: brecce, fessure, tagli, spiragli nel muro, nelle porte, nelle finestre da una parte, in cui la nostalgia dell'infinito e dell'indefinito si riversa come nelle sforbiciate di Fontana...."
scheda video
http://www.poesia2punto0.com/2011/10/03/roberto-carracci-video-scheda-su-ida-travi/
http://www.youtube.com/watch?v=8GeSJ0e_mM8

* di Fiorangela Oneroso* (settembre 2011)
"...Si vive in un continuo stato di stupore a rischio di frantumazione. Infatti, per Ida Travi, la vita è perennemente sottoposta al dominio del “Tà”, il suono onomatopeico che scandisce il passare del tempo, l’inizio e la fine: il taglio di un ramo, la prima sillaba di una parola, la sillaba ultima . Tà, fonema ambivalente. Creativo e distruttivo. Tà, come il bello e il  buono, ma anche come il triste e il crudele. Come il sereno e il tranquillo ma anche come il turbolento e l’inquietante. (...) "


* di Luigi Bosco Ricominciare da TÀ. Per una nuova mitologia contemporanea ( luglio 2011)
"...E a me pare che, con questa raccolta, Ida Travi tenti di fare proprio questo: assumersi la responsabilità di offrire al mondo la possibilità di una nuova realtà, con tutti i rischi che ciò comporta. Lo fa proponendo ciò che a me piace definire una nuova mitologia contemporanea che «narra ciò che in realtà non è, o non accade una volta per tutte, ma si fa, fuggevolmente diventa. (...) 

*di Franca Rovigatti (maggio 2011)
 "...Ogni cosa in effetti luccica in questi versi, ma per spostamenti minimi, per gioie e dolori senza clamori, perché tutto è piccolo e grande allo stesso tempo, caduco e immortale. E lo stesso tempo ha sempre due volti, due vie, appunto: l'alto e il basso, la luce e la tenebra, la parola e il silenzio, e ciò perché, come scrive la stessa Travi ne L'aspetto orale della poesia,(1) "la lingua materna [...] lascia andare sia il trionfo che l'orrore. (...)"

*di Stefano Guglielmin ( giugno 2011)
 "...In nessun altra poesia come in quella di Ida Travi ogni cosa (gesto, paesaggio, oggetto) tiene il mondo nella sua quadratura di cielo, terra, divini e mortali, lo si sente agire in essa, in una tensione com-movente. I quattro, infatti, si muovono insieme verso di noi, che siamo della stessa sostanza, ci scuotono intimamente, affinché ci si ponga in ascolto vigile della "briciola smagliante" che ogni cosa è nel grembo del mondo.(...) 

*di Alessandra Pigliaru ( marzo 2011)
"... La cesura di Tà. Poesia dello spiraglio e della neve (Moretti&Vitali 2011) sta soprattutto nei luoghi inesplorati dove la poeta porta con sé simboli e cifre che la contraddistinguono cercando nuove tracce, nuove foglie che sanno sollevarsi fieramente, come un preghiera : Inna, mostrami il piede sicuro || C’è un fiore | sotto il piede sicuro || getta la croce|| la zolla è calda | l’erba cresce come una santa." (...)
http://rebstein.wordpress.com/2011/04/02/ta-poesia-dello-spiraglio-e-della-neve/

*di Marina Corona (aprile 2011)
 "....Che cosa in “Tà” lega la voce narrante ai suoi compagni? Certo la comune inquietudine per qualsiasi coordinata spazio-temporale che li contenga, certo il comune senso di un’attesa incombente dell’avverarsi di un nuovo evento, tale da metter fine all’angoscia, ma che non si avvera mai, certo l’insidioso disagio per uno stare impossibile in questo ‘non luogo’ (...)

*di Rosa Pierno (aprile 2011)
"...Storie scompaginate, brandelli di storie, o meglio, nuclei da cui può partire un intero racconto, una saga. L’innocenza del racconto, riposando su un suolo infido. Saranno ancora quegli stessi simboli a mostrare la doppia faccia di ogni medaglia, l’altro  aspetto delle cose, quello raccapricciante: che slega e fora. Inutilmente si farà riferimento al sonno come elemento riparatore, che solleva da tale stressante realtà. Non sarà che il sonno procura gli stessi deliri presenti nel linguaggio?"  (...)

*di Luce Tondi (giugno 2011)
"...Il contrasto sta tutto in una forma di espressione che definirei appunto obiettiva, aderente alla vita concreta delle persone, e nello stesso tempo profondamente rarefatta nella sua tragica astrazione, con quegli interrogativi tutti senza risposta, per cui l’unica possibilità è resistere, farsi forza. Anche se il dramma è perentorio “sei troppo vicina alla morte/ sei a rischio”  alla fine “torneremo a casa? / Sì / torneremo a casa” (...)

 altre note critiche ( online dopo la pubblicazione cartacea )
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IL CANTO SORGIVO DI IDA TRAVI


su Ida Travi, Ta'. Poesia dello spiraglio e della neve, Moretti&Vitali 2001.
nota di Roberto Caracci


La poesia di Ida Travi riesce a conciliare due opposti: il silenzio che parla con la parola che sussurrando tace. Su uno sfondo di siderale, metafisico silenzio, si stacca la Voce, una voce che parla, dice, dialoga -e riesce a parlare allo stesso tempo con se stessa e con un Tu. La parola è soffio, pneuma, vento che sibila all'orecchio di un tu, si confida, si insinua e vive della sua stesso 'eco'. Una voce che sembra provenire da molto lontano, pur mantenendo le radici in un Presente, anzi in una presenzialità viva, sonora, carnale, assolutamente istantanea e attuale. E' l'aspetto orale della poesia, per citare il più bel saggio della Travi, una poesia che si dà come voce e come canto, come suono e come contatto. Non siamo semplicemente nella scrittura e non siamo semplicemente agli albori del linguaggio -non potremmo più esserlo-, quando la relazione neo-natale e neo-materna io/tu identificava la comunicazione con la percezione e la risposta al miracolo della pura voce materna. Siamo nella poesia che si volge alla propria origine, che lascia filtrare in sé il suono primordiale del mondo, delle cose, del corpo sonoro della madre. Siamo nella poesia che mentre parla ascolta, che mentre dice sente. E' l'aspetto ontologico-carnale della poesia, potremmo dire, oltre che l'aspetto orale. Ecco perché questi versi si succedono, nel loro ritmo, nella loro trama fonosimbolica, nel loro contrappunto fonetico, sillabico, timbrico, come una spartito già pronto per essere eseguito: una scenografia visiva della Voce.


Ed ecco, in questa lirica che sa di originario, di mitico, di vento greco, la tendenza alla frantumazione e ricostruzione del ritmo, come quelli di una voce che proprio dal vento viene portata, sfrangiata e ricondotta. Cesure, ellissi, richiami, riprese, apparenti crolli dell'immagine che rinviano ad aerei, acrobatici recuperi in corso d'opera- dando vita a telai fitti di corrispondenze simboliche e fonetiche. Se la scrittura ha qualcosa del cucire - come dice l'autrice nell'Aspetto orale della poesia- qui il raccordo dei frammenti lirici suppone un'arte del 'ponte', ovviamente quello metaforico e simbolico, ma anche quello fonetico e timbrico, che produce vertiginose unità volanti, fragili nella loro perfezione, come farfalle del tutte autonome nella loro precaria, mortale bellezza.


A volte il verso si impenna su se stesso, e la musica della poesia esprime un suo ipnotico librare da libellula, una ritualità del canto, una oscillazione da culla della parola (Insiste la vocina della sera, l’eterna/ vocina dei morti nella sera), che rinviano alla Voce di cui la stessa scrittura è fatta: una sinestesia stampata di sguardo e ascolto, di logos e musica, di spartito ed esecuzione (oltre che, come ripete la poetessa, di mito e tragedia).  E il silenzio, il vuoto, lo spazio bianco, hanno un ruolo determinante in questo rampollare della voce come evento, che si riconosce e si sfrangia in tante altre voci-evento che sono distillati di vita vissuta, goduta e sofferta. Nel vuoto precipitano i versi, dal vuoto riemergono pagando la loro pena -come gli enti di Anassimandro. La rinascita della parola presuppone la sua morte, il suo s-confinamento, e dunque la sua capacità di trascendersi, di finire e ricominciare: come la vita, con i suoi lutti e le sue rielaborazioni.




 Dal silenzio e dal nulla si materializza la Voce-canto, madre della stessa parola. Ciò che dall'abisso del non-essere viene, e-viene, è il suono primordiale, neo-natale, sorgivo della parola: il linguaggio allo stato puro, proteso all'incondizionatezza, della poesia. Anche la poesia di Ida Travi rampolla come dal nulla con la nuda freschezza dell'esperienza neo-natale. Si protende limpidamente al mondo, come il ramo d'albero (immagine ricorrente) lanciato verso l'azzurro; o converge in direzione dei pozzi dell'anima, come lo stesso ramo che batte alla finestra, bussa per entrare nella 'tua' casa, o lasciarti il dono di una sua foglia.


Usov, qualcosa di meraviglioso/ è entrato in casa, presto!/ Chiudi le finestre, prima che voli via…


La casa e il ramo dell'albero: ecco due immagini ricorrenti nella poesia di Ida Travi. La casa come luogo dell'io, chiuso/aperto, teso fra la clausura dell'introversione, del radicamento al passato, della ritualità delle abitudini, e l'apertura al mondo, a tutte le cose del mondo, alla loro meravigliosa molteplicità e pluralità ("ta'"). E' la tensione fra il dentro e il fuori, con la relativa pro-tensione del dentro verso il fuori e del fuori verso il dentro: brecce, fessure, tagli, spiragli nel muro, nelle porte, nelle finestre da una parte, in cui la nostalgia dell'infinito e dell'indefinito si riversa come nelle sforbiciate di Fontana (altri "ta'" nello spazio-tempo); e dall'altra parte, dalla parte del fuori, rami che picchiano alla tua finestra, alberi che svettano nella neve oltre i vetri, o vetri che si infrangono per l'irruzione  di elementi esterni e ti espongono traumaticamente all'aperto, alla nuda percezione del mondo.


La nuda percezione del mondo attraverso l'epidermica sonorità del corpo, ossia la Voce, passa talvolta attraverso la metafora della spoliazione, dello sfrondamento, dei vestiti caduti, abbandonati o bruciati (forza purificatrice del fuoco), o persino la caduta delle 'bende' (Olim,ti sbendo. Tu guarda/ dall’altra parte…), che ricorda lo sbendamento delle mummie o dei cadaveri. L'esposizione del 'corpo' al mondo, attraverso la neo-natale voce, suppone questa combustione della veste-pelle di serpente per una liberazione dal passato e da tutto ciò che si sovrappone alla nuda fenomenologia dell'esperienza percettiva.


Vuoi vedere /che mi tolgo il cappotto?

Vuoi vedere che mi tolgo il secondo cappotto?

E adesso, lo vedi, il mio spirito, lo vedi?




 Il canto del poeta ha pochi filtri, si arrischia al mondo, vive la sua alea di radicale nudità, la sua scommessa di adesività attraverso una  parola porosa, leggera come velo, come soffio, come ala di farfalla.


La voce che racconta e che si espone nudamente al mondo, per raccontare una esperienza originaria del mondo, non è monocorde né monologica, non è lirico-solipstica. Si moltiplica, si sfrangia, si apre a, e si prende cura della 'moltitudine' delle altre voci del mondo. Ed ecco che in "Tà", attraverso gli spiragli, le brecce, gli spioncini della 'casa', appaiono 'nomi mondiali' di personaggi che beckettianamente diventano impliciti interlocutori del discorso poetico. Qui l'io sostanzialmente non esiste. L'io si trasforma in un io-tu. E' al tempo stesso l'ospitante  è l'ospitato, l'invaso è l'invadente. Il lui si trasforma in un loro. La pluralità delle voci è sostanziale alla Voce -prismatica e differenziata. Ed è con queste presenze che il colloquio della poetessa diventa 'quotidiano', dal registro apparentemente 'umile', certamente 'orale'. La complessa operazione di cucitura dello scampolo lirico, del frammento, del rivolo della voce, utilizza un lessico chiaro, limpido, con parole così terse da rinviare a una collaterale coloritura simbolica e mitica: quella ad esempio in cui 'porta' suggerisce la 'soglia' (Sento voci/ rimbombare là fuori…/ E noi qui sulla soglia/ nascere…), e casa una dimora di 'psiche', oppure le piante, con i loro tronchi argentei o i loro rami protesi come braccia fanno pensare a una natura antropomorfica, e talvolta più viva e umana dell'uomo.


Il dentro e il fuori sembrano avere qui una ricaduta 'temporale': il dentro, quello della casa, ha qualcosa del passato che non passa mai del tutto e che resta sotto le 'vesti' (da bruciare) dell'abitudine; mentre il fuori (Porto il mio male al vento, lo porto fuori/voglio stenderlo come un lenzuolo…), come quello del cielo e delle cime degli alberi, ha qualcosa del futuro e della relativa vertigine. Il presente, da parte sua,  lento e suadente -quello che in sostanza coincide con la Voce e con la 'contingenza' sorgiva dell'anima- oscilla fra la calamita gravitazionale del passato e il futuro messianico della scommessa di una vita diversa (Quando tutto sarà a posto/ saremo felici come colombe…), che non si intraveda solo attraverso spiragli e non sia ricoperta dal bianco uniforme, splendido, innocente ma insieme letargico,  della neve.


Accanto a questa tensione 'temporale', vi è nel libro della Travi anche una diffusa polarità spaziale, plasticamente giocata tra immagini gravitazionali di suolo, di terra, di ombrose mura legate a fondamenta, e immagini di cielo, di volo, di altezze luminose. Un esempio di lirica plasticità, tra leggerezza e gravità, volo e ricaduta, caratterizza ad esempio i seguenti versi:


La torre cala il suo ponte levatoio/ voi uscirete come colombe/ dal cigolio delle catene…


Il qui si contrappone al lì, il quaggiù al lassù (Usov, com'è triste la vita, qui/ lassù nel cielo, invece, invece…), il basso all'alto (succede in alto , e in terra/ saltella tristemente la bambina…) e ovviamente la prossimità alla lontananza.  In questo senso dietro il Tà come taglio, de-cisione, clic del tempo e del destino, e Tà come pluralità delle cose del mondo (dove Ogni cosa è illuminata, come recita il titolo di un recente libro e film), possiamo scorgere anche un Tà come distacco, fuga, decisione o costrizione all'abbandono, all'allontanamento: da casa, dal passato, dall'infanzia, dagli stessi affetti.



Cos'è questo gettarsi sempre avanti/ come un sassolino.../ Siamo forse nati per questo abbandono?/ Avanti, lascia il ramo (…)
Dobbiamo alzarci fino alla luce/ Su, fino al filo di luce, più in alto, più in alto
Un distacco spazio-temporale (distacco da un luogo e distacco da una dimensione del tempo) che ha un significato insieme ontogenetico -separazione dalla madre, dalla casa, dall'infanzia (La casa crollava/ l’albero crollava/ tutto finiva in terra…)- e ontologico/ filogenetico - come separazione dell'io da se stesso, per poter morire e di volta in volta rinascere a se stesso.
Se poi volessimo entrare nelle fibre delle scelte materico-linguistiche e dei campi metaforici utilizzati sapientemente dalla Travi, potremmo rinvenire una contrapposizione chiara fra elementi liquidi ed elementi solidi, tra elementi umidi ed elementi secchi ( Non c'è niente di liquido, qui dentro/ non c'è niente che scorre in questa casa./ E fa paura quella tosse secca/ tutto il pane, tutti i rami si spezzano così…): gli uni appartenenti a una dimensione vitale, sorgiva, materna, gli altri alla dimensione del fisso, dell'eterno, della legge paterna- quella stessa che trasforma il suono in nome-numen-  e in sostanza della 'morte'.
Ogni parola è un sasso/ comanda, come una nevicata/ sull’erba, sulla neve, nella neve, nella neve.
Anche il ramo, ad esempio, si spezza quando perde la sua elasticità liquida e vegetale, si incrina (anch'esso nello spazio-tempo con un Ta') nel momento stesso in cui si solidifica come un minerale.
Chi è stato?!/ Chi ha spezzato il ramo?/ Era la legge/ Resisteva come un abete(…)
L'universo liquido-vegetale si contrappone a quello solido-minerale (Ci sono vetri dappertutto, Usov…), come la liquidità 'amniotica' della parola poetica si contrappone alla maturità asciutta e decisa del linguaggio: e solo ciò che è deciso si può de-cedere, tagliare, ridurre a scheggia di vetro. L'acqua di un fiume, come quella del canto poetico, non si può tagliare. Le incrinature del linguaggio -e dello stesso linguaggio poetico quando è necessariamente lontano dall'idea originaria o oggi in pratica irrecuperabile di 'canto puro', possono in effetti essere viste come la stessa irruzione del linguaggio maturo della parola, secca e convenzionale, nel suo 'aspetto orale' e originario di Voce. Ida Travi realizza mirabilmente nei suoi versi questa 'eco' di una sorta di peccato originale del linguaggio di cui la poesia è drammatica e insieme gioiosa memoria: memoria di un canto spezzato, ma fortunatamente non del tutto. E vi sarà poesia finche si riuscirà a fare canto di un canto spezzato, ossia 'cucire'  i cocci delle rovine (come forse faceva Hoelderlin) in un neo-canto in cui risuona insieme l'eco delle origini e lo stridore della lacerazione. Certo l'accento palingenetico, talvolta messianico di certi versi della poetessa ( Devi credermi. Qualcuno verrà/ nel silenzio dei tronchi, qui, tra gli alberi…) non sono lontani dalla nostalgia di un eden distrutto, di un mondo-giardino devastato con alberi dal cuore di pietra, e recuperabile forse come traccia sonora, come eco e canto.
Tutto era a posto, tutto era perfetto/ poi è venuto l'uomo con la falce/ e s'è preso le nostre fragole.
Il vecchio giardino morirà un’altra volta…

Nell'universo di Ida Travi, molti 'bussano alla porta' della nostra casa. Possiamo rinchiuderci (La porta aperta un istante/ è rimasta chiusa per secoli…),  poi la porta -per fortuna- si apre da sola, e la presenza del mondo, delle cose e degli altri 'fa breccia'. Lo spiraglio può essere quello interno, lo spioncino da cui guardi il mondo senza essere guardato, o la ferita che tu hai inferto al muro, alla porta, al vetro infranto; oppure quello spiraglio può essere esterno, lo stesso spioncino usato dall'altra parte, un ramo che picchia alla tua finestra, delle presenze che si affacciano alla porta rimasta distrattamente aperta. Dentro quello spiraglio, comunque, come diceva Fontana 'c'è l'infinito…'  L'infinito del mondo e dell'Altro, anzi degli Altri, ciascuno con la sua Voce, con la vita ospitata dalla Voce -che è sua e non sua. Il poeta è colui che racconta una voce fatta di voci.
E la neve? La neve cade, è destinata a cadere e a ricadere sempre sulle cose, sul mondo, sugli altri, accomunandoci tutti sotto il suo mantello bianco.
Un invernale sudario di morte?
Non necessariamente. Sta a noi, probabilmente viverlo -al di qua o al di là dello spiraglio e della soglia (Usov, la porta s’è aperta/ c’è un raggio bianco)- come il sigillo bianco dell'inverno e della fine, o come il materno velo che salvaguarda la terra e la aiuta pian piano, magari con il sommesso bisbiglio neo-natale della poesia, a mostrare la propria nudità rinnovata all'azzurro dei cielo.
L’azzurro batte alla finestra/ nel paese di fango mescolato a neve…
                                                                                                Roberto Caracci   27 settembre 2011
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Ida Travi, Tà. poesia dello spiraglio e della neve, Moretti e Vitali, Bergamo 20011.
nota critica di Fiorangela Oneroso

  Il libro di poesia di Ida Travi, Tà, poesia dello spiraglio e della neve, è un poema di voci. Voci che parlano e voci che tacciono. Voci in convivenza.  Le voci che parlano, esortano, intimano, ordinano, invocano, mostrano, incitano, chiamano, interrogano, èvocano. Sono voci particolari, sebbene consuete: appartengono ad esseri umani particolari, sebbene consueti. Chi sono questi “esseri umani”?
 Nella poesia di Ida Travi l’io che ricorda, pensa, parla, sentenzia, domanda, nomina, non è un io singolo, soggettivo, individuabile, identificabile. L’io di Ida travi è un “noi”. Il tu, a cui l’io-noi  si rivolge, è un “voi”. Anzi, un “loro” ( “Chi sono loro?/ Post-studenti, ex-lavoratori, esseri comuni / E perché sono qui? / Vivono con noi / Dici sempre - con noi / ma che vuol dire noi / noi chi? / Guarda come è alta la neve adesso… / ci supera.”). Le terze persone plurali. Per questo i nomi sono” nomi mondiali”: Olin, Attè, Inna, Antòn, Katrìn, Usov. Questi “esseri umani” si possono vedere “solo per un attimo, inquadrati a strisce dietro lo spiraglio”. La loro presenza si palesa a tratti, in un’aria umida, nebbiosa, in un luogo indistinto, silenzioso, innevato. In un tempo senza tempo, singolare, straordinario. Le loro menti posseggono cognizioni essenziali, ma non elementari. Fanno movimenti minimi. Si muovono nell’attesa: “Aspettano, ma cosa?”

 Quando non parlano, le voci riflettono, avvertono, sentono, considerano, descrivono. Pensano. Ma non in termini di individualità. Pensano in termini di molteplicità, di pluralità di differenza. Quando parlano, lo fanno in tono bassissimo usando parole essenziali, riducendo all’osso il dire, evitando ogni eccesso. “Si vergognano di una parola in più”, spiega Ida Travi nell’introduzione.
In quest’ultimo lavoro poetico di Ida Travi l’esistere delle esistenze si svolge in spazi rarefatti, in tempi sospesi, in un fluire apparentemente tranquillo ma profondamente insidiato. Talvolta improvvisamente interrotto da eventi inattesi che scuotono la quiete abituale. Provocano distacco, separazione. Producono tagli non rimarginabili. Si vive in un continuo stato di stupore a rischio di frantumazione. Infatti, per Ida Travi, la vita è perennemente sottoposta al dominio del “Tà”, il suono onomatopeico che scandisce il passare del tempo, l’inizio e la fine: il taglio di un ramo, la prima sillaba di una parola, la sillaba ultima . Tà, fonema ambivalente. Creativo e distruttivo. Tà,, come il bello e il  buono, ma anche come il triste e il crudele. Come il sereno e il tranquillo ma anche come il turbolento e l’inquietante.

  E’ una poesia onirica, la poesia di ? Forse. Ma non onirica in senso tradizionale. Sembra  trattarsi di un onirismo peculiare, frutto di una straordinaria coesistenza di due condizioni inconciliabili a lume di ragione, ossia di una  simultanea e paradossale esperienza di sonno attentivo - veglia-sonno, sonno-veglia - che si svolge nelle dimensioni intrecciate del provenire e del ritornare. Una sorta di onirismo vigile e consapevole, in cui il corpo può svegliarsi “nel bel mezzo del sonno” ritrovandosi “nuovo”.  E’ così che vede, la vita e la poesia, Ida Travi, per sua stessa ammissione.

Ogni componimento della raccolta, articolata in cinque sezioni a predominanze tematiche in evidenti forti interrelazioni (“La terra.” “Il ramo.” “Il castigo.” “Il grido.” “Il bambino.”), possiede una sua compiutezza, e tuttavia ciascuno è parte di un tutto, rappresenta  una tessera di un ampio mosaico che va sotto il nome di Tà e che prende via via una sua fisionomia complessiva restando però,  nel suo insieme, indistinto e sfumato. In quanto poesia pura Tà non racconta, anche quando appare più vicina ad una prosa poetica, semplicemente allude, evoca, lascia sempre insaturo il significato. Perciò questa poesia (“Ci vuole un bel coraggio / per questa poesia: sono capaci tutti”)  che immette in percorsi spaziali e temporali imprecisi e sfuma in imprendibili micro-visioni  filtranti attraverso spiragli e interstizi è una continua sorgente di intense suggestioni e apprensivi trasalimenti (“Ma intanto… che fare con questa poesia?”. “…che te ne fai di questa poesia?”. “Nel bozzolo non si respira, sbèndami”. “Ritorna in te, togliti dalle rose”. “Chi è stato?! / Chi ha spezzato il ramo?”. “Olin, ti sbendo. Tu guarda / guarda dall’altra parte, guarda”. “- se tu sapessi, Olin…-”. “Usov, qualcosa di meraviglioso / è entrato in casa, presto! / chiudi le finestre prima che voli via”.).



   è il risultato di un attento autoascolto del poeta che compie un percorso a ritroso configurabile come esperienza di purificazione dal superfluo, di liberazione dall’ingombrante. A quale scopo? Per ritrovare, tra cieli di neve e cieli di luce, le cose perdute, quelle lasciate e quelle che gli sono state sottratte. Per poter riascoltare il silenzio originario. Per ritrovare il movimento minimale, la superficie della parola che è la vera profondità (“E’ tutto così breve, qui”. “E’ la verità”. “Te lo dico perché è vero, Olin”.). Ida Travi svela  nei suoi versi ciò che è stato offuscato da una esistenzialità rumorosa e caotica, eccessiva e sovrabbondante, e che  adesso, grazie a un intenzionale e progressivo processo di essenzializzazione, si palesa attenuato, nitidizzato, come un tempo. Si presentifica in un lampo. Un “allora” che si mostra come “ora ”. Per un attimo, per un solo attimo.

  Alla mente del poeta, immaginifica e trasfigurativa, riaffiorano piccoli particolari, oggetti noti e desueti, figure labili e leggere, ambienti lindi e tersi, timbri tenui e propinqui, ma anche utensili d’uso trasformati in strumenti aggressivi (“Tutto era a posto,  tutto era perfetto / poi è venuto l’uomo con la falce / e s’è preso le nostre fragole”. “…fuori c’è il signor boia / ci sono gli invasori della culla…” ); prendono corpo arie cupe (“Stanno segando il tugurio / ecco cos’è una metà”. “Il cancello era nero, era spalancato”). Vibrano le lontananze, nella loro dolcezza ma anche nella loro asprezza ( “L’inverno ha già circondato la casa / La mano comincia a scrostare il muro”. “E adesso questo silenzio cos’è / cos’è tutto questo buio?”). Si riaffacciano stupori e incantamenti, ma anche turbamenti e paure.

  A domande, esortazioni, osservazioni, non seguono risposte, atti o commenti. Non vi sono repliche, L’altro sembra essere afasico, forse inerte. Eppure non è assente. L’aria è densa di rispondenze. Da questo punto di vista Tà è una poesia della corporeità e dell’immaterialità, dell’oggettività e dell’astrattezza. Una poesia che esplora la consistenza labile della parola che al solo essere pronunciata si dissolve e perciò non può essere “scavata” (lo scavo della parola; la parola che scava), ma non per questo resta priva di effetti. Effetti che invece scavano profondamente “nell’anima”, fatta di un mondo di brevi frasi scandite, di puri suoni, di nominazioni.



Si conferma anche in , come in tutto il suo precedente percorso poetico, la predilezione e la scelta  di Ida Travi per l’oralità, per l’aspetto sonoro della lingua, per l’atto della “pronunciazione”, una scelta i cui risultati sono ampiamente conseguiti  mediante un raffinato lavoro poetico fondato su una selezione semantica accuratissima, su accentazioni e corrispondenze, su finissime assonanze intratestuali e intertestuali, potenzialmente infinite: “vaso”, “asse”, “osso”, “fosso”, “passo”, “sasso”, “tronco rosso”, “tenda rossa”, “adesso”, “stesso”...





Fiorangela Oneroso



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Ricominciare da TÀ. Per una nuova mitologia contemporanea

Note a margine di due opere di Ida Travi*

https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg12kNdzCErcWtAXcP2X2pYBToLKxdeaXJAQ0rhJgASU7anXD9C3TvrhoTEEEy9XyTbZSy80u9zwvd0-38y6cmqfyEbTwItJlJqaukqaFQhOq03v4Ly04slllWcwOIER4ffEBRkrHMKMmY/s1600/ida-travi.jpg


«Impossibile tornare al passato, impossibile |guardare al futuro».

Con queste parole si apre l’ultima raccolta di poesie di Ida Travi – TÀ. Poesia dello spiraglio e della neve. Moretti&Vitali, 2011 – : due versi brevi e potentissimi per dire tutto lo stallo del mondo, tutto l’impasse dell’uomo.
Più che una rivelazione, queste parole risuonano come la constatazione di un dato di fatto noto a tutti, divenuto a tutti gli effetti parte integrante di quella che chiunque è in grado, oggi, di riconoscere – arrendevolmente e con disarmo – come la propria condizione esitenziale, nel rispetto delle intenzioni della poetessa che mostra di non avere nessuna pretesa oracolare: «Tanto nessuno ha portato il libro | Nessuno può fare la profezia».
Però, nonostante tutto, l’elemento di novità e, oserei dire, di verità di questa raccolta è grande e si impone alla lettura.
Intorno a questo che oggi risulta un dato di fatto e che cominciò come un terribile ammonimento, si è costruita molta della letteratura del secolo scorso e quella della decade che ci siamo appena lasciati alle spalle.
L’impressione, però, è che il razionalismo postmoderno in connubio con previsioni apocalittiche, utopie disastrose, iperrealismi catastrofici, futuri distopici e nostalgici ritorni a improbabili tempi in cui si stava meglio quando si stava peggio, non abbiano lasciato molto spazio all’esercizio della speranza, ovvero alla pratica della possibilità.
Il decostruzionismo da un lato e, dall’altro, il moralismo critico sembrano aver riempito tutti gli spazi del linguaggio che, convertitosi necessariamente in mera retorica degli eventi, è stato privato a mano a mano di tutta la sua potenza creatrice di nuovi sensi e, dunque, di nuovi mondi.

E così «È finita con la polvere nel piatto | Abbiamo alzato il tiro, e adesso ai nostri piedi | C’è la rondine morta || C’è la rondine morta, presa a fucilate | Presa a fucilate proprio a metà del volo | Come abbiamo imparato in poesia».
L’estenuante ripeterci, anno dopo anno, lo stesso monito ha fatto sì che dal paventarlo passassimo, impercettibilmente e senza soluzione di continuità, al viverlo come una specie di inesorabile profezia autoavverata: la prova tangibile di quanto il linguaggio possa incidere sulla nostra percezione del reale, sulla nostra costruzione della realtà.
Platone ha cacciato i Poeti dalle città un milione di volte, ormai, e non c’è rimasto più né tempo né spazio per le favole: impossibile tornare al passato, impossibile guardare al futuroCi resta l’eterno ritorno del sempre presente uguale a se stesso e le sue inumerevoli descrizioni, enunciazioni, analisi, astrazioni, trascendentalizzazioni, decostruzioni.
È necessario, allora, abbassare il tiro e, «per amore della verità», «rinunciare ad ogni abbellimento».
C’è chi afferma – ed io ne sono convinto – che questa non sia l’unica realtà possibile. Se ciò è vero, allora è lecito pensare che tocchi (anche e soprattutto) alla poesia proporne di nuove, di radicalmente nuove.
Farlo è rischioso e risultano necessari molta forza e molto coraggio per sostenere il peso di tanta responsabilità: altro che poesia civile o filosofia politica, qui si sta parlando di azzerare tutto e ricominciare daccapo.
E a me pare che, con questa raccolta, Ida Travi tenti di fare proprio questo: assumersi la responsabilità di offrire al mondo la possibilità di una nuova realtà, con tutti i rischi che ciò comporta. Lo fa proponendo ciò che a me piace definire una nuova mitologia contemporanea che «narra ciò che in realtà non è, o non accade una volta per tutte, ma si fa, fuggevolmente diventa», perché «si narra proprio quel che si cancella, cioè quel che si toglie dal reale e si trasforma in opera»: deporre segni, emettere suoni, è sempre un sovrascrivere al già scritto, un sovrapporre al già detto, quindi un cancellare – fosse anche il bianco di una pagina o il silenzio di una stanza.
Una mitologia, questa della Travi, che non proviene dal totalmente altro, che non è il frutto di un intromissione esterna o di un intervento divino, ma è il risultato di un processo endogamico di rigenerazione del già esistente che non rischia mai di diventare una tautologia.

Una mitologia che non si fonda su un atto di fede degli uomini verso un profeta, bensì su un patto di fiducia tra esseri accomunati dalla medesima tragicità, poeticamente intesa come «il fatto di dover nascere e morire, di dovere, in questo lasso, inscrivere una storia di cui non siamo a conoscenza, se non alla fine dell’opera». Una mitologia, perciò, che non ha confini se non quelli dei margini della pagina scritta o della lunghezza d’onda della voce.
Una mitologia, infine, che è solo agli inizi, che è incompleta, solo un abbozzo. Un abbozzo di innumerevoli piccole storie delle quali la Travi ci offre brevi scatch, singole sequenze, puntuali episodi di una saga, lunga come la storia, ancora tutta da scrivere, da costruire, da vivere raccontare! Compiti, questi, che non spettano solo al poeta ma anche e soprattutto al lettore. Perché – questo è il patto che qui si instaura tra poeta e lettore, questa la grandezza di questa raccolta – senza il tramandarsi della vita e della voce, entrambe intese come gesti pieni che antecedono qualunque esercizio di coscienza, la parola si svuota e svuotandosi muore sulla pagina già morta, in silenzio, come se non fosse mai successo nulla. I versi di Ida Travi sono quelli di una poesia «scritta per essere detta», caratterizzata da una prominente indole orale che «con i modi del dire» tenta di fondare «i modi dell’agire».
L’eliminazione di «impalcature linguistiche utili all’enunciazione di principi astratti», ottenuta grazie all’utilizzo di «una lingua ridotta all’osso», contribuisce alla costruzione di un discorso in cui prevalgono «enunciati di fatto»: in questo tipo di poesia «qualcosa si compie, qualcosa accade, fosse anche soltanto il verso stesso».
Questo tipo di scrittura – capace di rinunciare alle esigenze del discorso funzionale, senza per questo assoggettare le proprie necessità espressive a forme di ermetismo tardonovecentesco o di sperimentalismo neoavanguardistico – denota la spiccata volontà di allontanarsi da qualunque tipo di formalismo e di linguaggio poetico fine a se stesso che rischino di ridurre la presa di coscienza etico-politica che l’autrice vorrebbe universalizzare ad una personale lotta espressiva tema di acutissimi dibattiti critco-accademici.

Ma quali provviste, Olin
La merce siamo noi, siamo la merce
Che può fare acquisti
Olin, te lo dico in un orecchio
E tu dammi l’orecchio

Quando l'acquisto riguarda il pane, i tempi 
sono prossimi alla redenzione
http://rebstein.files.wordpress.com/2010/07/l_aspetto_orale_della_poesia.jpg

Questi pochi versi di incontestabile efficacia hanno la stessa portata di un manifesto che, in risposta allo svuotamento etico dell’ambito politico, cerchi di preservare e proteggere quel che resta dalla colonizzazione del miraggio capitalistico e dalla contro colonizzazione del sintomo comunitarista, attraverso l’universalità delle sue affermazioni.
A leggere le poesie di TÀ ci si riempie la bocca: le parole sono dense, i discorsi fluiscono pastosi in assoluto contrasto con la suggestiva evanescenza delle immagini proposte. Immagini che fanno tornare indietro, al tempo neonatale in cui «si ascolta con la bocca», disseminando «l’integrità concettuale della cosa in sé … nella molteplicità dei suoni e dei casi». Ed è proprio per «questa frantumazione, per questa dissoluzione dell’unità del vero, che il poeta tiene chi ascolta chiuso in un incantesimo e non lo lascia pensare».
Se si accoglie con fiducia l’invito della poetessa ad osservare lì dove indica il suo dito, al di là di ogni pregiudizio, si produce un incantamento capace di liberarci da ogni barriera del funzionalismo retorico del pensiero «attraverso uno stato di sospensione del reale, o una forma di dissoluzione temporanea del mondo nella molteplicità dei segni» che consente, almeno in quell’istante, di esperire il sollievo che deriva dal «superamento del tragico» in atto.
Il luogo in cui ci porta la mitologia di Ida Travi è un posto reale dove l’esperienza supera il pensiero; è quella parte di mondo rimasto ancora inesplorato «più pericoloso della terra», dove il rischio è perdersi. È un luogo del mondo «a cavallo del tempo» che «era caduto dietro l’occhio, ecco | Perché non si vedeva più!».
Poi, qualcuno è arrivato e ha battuto alla porta,  «una piccola porta e l’insegna che sbatte |- umanità –». «C’è qualcuno che batte alla porta … la porta si schiude come una porta» e – TÀ! – si apre uno squarcio – TÀ! –, una fessura – TÀ – . Qualcuno ha mosso la lancetta – TÀ! – sullo zero – TÀ! – : chi è pronto può ricominciare.
Per cominciare è necessario uno scambio a fondamento di un patto di fiducia tra lettore e poetessa: ella è disposta a prestare il suo occhio («Intanto, prendi da me questo occhio| Guarda») al lettore che offrirà l’orecchio all’ascolto («E tu dammi l’orecchio»).
«La porta aperta un istante | È rimasta chiusa per secoli». Nell’istante si apre una fessura come una ferita – quella che rimarginerà il mondo. Attraverso di essa si possono vedere, «inquadrati a strisce dietro lo spiraglio», uomini e donne «dai nomi mondiali»,  andare e venire «trasfigurati dalla poesia» all’interno di un «luogo austero, limitato da assi, chiuso da lenzuola».
«Ripetono sempre le stesse cose», come un mantra, come una preghiera. Come un rito ai primi passi. «Sono esseri di questo mondo, l’esatto contrario degli dei». Loro, dunque, come noi… ma «Loro chi? Noi chi?»
Qui, in questo posto, «ognuno se ne sta» ungarettianamente «Come un bicchiere | Al suo posto, al suo posto | Aspettando che venga | Una mano», mentre «fuori c’è il signor boia | ci sono gli invasori della culla…» pronti per l’invasione.
«Sii te stesso, per favore | Lascia stare il fantasma», dice la voce all’entrare; «Nel bozzolo non si respira, sbèndami» risponde chi entra. Così, ripetutamente, uno ad uno. Se ci sarà qualcuno che terrà «accesa la candela», «Le assi cadranno per terra | E il mondo tornerà al suo posto» e inaspettatamente «nel bel mezzo del sogno, il corpo si sveglierà, sarà nuovo».


*TÀ. Poesia dello spiraglio e della neveMoretti&Vitali, 2011; L’aspetto orale della poesiaMoretti&Vitali, 2007.
Tutte le frasi virgolettate provengono disordinatamente da entrambi questi due libri.


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da IL MANIFESTO 4 maggio 2011 recensione di Franca Rovigatti

Nei versi di Ida Travi il bisbiglio sommesso della lingua materna


«Tà, come tavolo, talamo, tasca. Tà come fine d'eternità, realtà, libertà... volontà... verità, vanità, carità...»: così Ida Travi nell'Introduzione inizia a compitare il titolo del suo nuovo libro, Tà, poesia dello spiraglio e della neve, appena uscito da Moretti &Vitali.
Lo spiraglio. Travi dice ancora: «Tà, come un taglio nella tenda», e la severa copertina, con l'Omaggio a Lucio Fontana, mostra sette tagli verticali su una tela chiara. Spiraglio, spiragli: ma da cui vedere cosa? «Un luogo austero, forse una casa, forse una ex fabbrica (...) è un luogo limitato da assi, chiuso da lenzuola...». Dallo spiraglio si intravedono oggetti, piccoli movimenti, e si possono udire i frammenti di un discorso continuamente interrotto e continuamente ripreso. Il lettore, incollato allo spiraglio, cerca di mettere insieme indizi, ma il piano dell'azione si sposta di continuo, la scena scompare.
Attraverso lo spiraglio appaiono gli oggetti di un quotidiano povero e antico, contadino: la vanga, il rastrello, il carro, il cucchiaio, il pettine, il tovagliolo, il cappotto, il pane, la tazza, la corda, la falce, la benda, il martello. Poco di più: sono questi gli utensili di Tà. Gli abitanti «sono esseri comuni, sono post. Post-studenti, ex-lavoratori, viandanti... Vanno e vengono. Ripetono sempre le stesse cose», hanno nomi strani, che non appartengono a nessuna lingua. Quel che di loro si riesce a vedere sono frammenti di gesti, baluginii, posizioni. Un vivere muto, sordo: la voce-poeta pone continue, accorate, domande. Come per svegliarli da un incanto che li ha resi sonnambuli. È la voce profondamente coinvolta di uno che sta fuori, e guarda, ma che sta anche totalmente dentro: «Vivono con noi / Dici sempre - con noi / ma che vuol dire noi / noi chi?»...


A Tà c'è un'attesa: lo annuncia il titolo dell'introduzione, Tempo d'attesa fra le quattro mura. Ma non si capisce se l'evento atteso sia temuto o desiderato: certo, è tangibile il bisogno che qualcosa arrivi e muti lo stato di inerzia, lo stallo: «Non c'è niente di liquido, qui dentro / non c'è niente che scorra, in questa casa». Qualcosa che arrivi come il vento, il bambino, l'amore: «Quando tutto sarà al suo posto / saremo felici come colombi / Avremo i capelli azzurri / bianchi come la neve». L'attesa riguarda il futuro, implica il tempo («Tà, come la lancetta che si sposta»): ma il tempo è poco, «È tutto così breve, qui». L'ordinato procedere del tempo, avverte Travi in epigrafe all'introduzione, è anch'esso un'illusione, almeno a Tà: «Impossibile tornare al passato, impossibile guardare al futuro». A Tà sembra non esserci posto per la speranza. Ma c'è la neve. Ci sono gli alberi, i rami, il fiume, l'innocenza degli animali, delle rose, delle fragole. Oltre lo spiraglio, in un suo altrove, la natura si concede alla visione. Non parla, non tace, non risponde, non interroga: semplicemente c'è.
La lingua di Tà è povera: un vocabolario ridotto al minimo, ma sempre estremamente concreto. Al punto che sembra di vederla nella penombra, la tazza, di poterla prendere dal tavolo di legno scuro, di poterci bere. Una parola tanto concreta da realizzare l'unione di segno, suono e senso, il sogno di ogni poeta, la caratteristica vitale della poesia orale. Su questo tema, o luogo, Ida Travi ha lavorato a lungo (L'aspetto orale della poesia, Moretti & Vitali 2007): per rendersene conto, basta averla sentita quando «dice» i suoi testi. Secondo Travi (che domani sera all'Esc di Roma, via dei Volsci 158, «dirà» Tà) poesia orale è «la prima lingua, la lingua materna (...) che contiene - attraverso la lingua poetica - il bisbiglio». La «lingua materna» come matrice della «lingua poetica» è tema fondamentale nella poetica di Ida Travi, non si può prescinderne se si vuole entrare in sintonia con Tà. Come dice Travi: «credo che ognuno porti impressa in sé la traccia di quell'incredibile esperienza che fu l'ascolto delle voci fuori, quando ancora eravamo molto piccoli e la nostra vita assomigliava ad un interno lattescente».
Ecco lo spiraglio. Ecco la neve. (Franca Rovigatti)
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Ida Travi
Tà poesia dello spiraglio e della neve
Moretti&Vitali,febbraio  2011
pp.160
Euro 14,00
recensione di Stefano Guglielmin

http://golfedombre.blogspot.com/2011/06/ida-travi.html


La luce metafisica in cui ci immerge Ida Travi in Tà poesia dello spiraglio e della neve (Moretti Vitali, 2011), come nei suoi due libri precedenti, si colloca nella cesura fra l'io e il tu, ne è il taglio che li tiene in contatto, nel medesimo respiro poetante. Tà, a me pare, è sillaba che convoca la presenza nell'interrogazione continua, paziente, che ogni presenza chiede. Tà è l'occhio che fissa l'immagine, è la parola che la descrive nel suo oscillare ontologico, in quell'imprendibilità che, impedendoci di dominarla o di escluderla, ci tiene appassionatamente in sua prossimità. In nessun altra poesia come in quella di Ida Travi ogni cosa (gesto, paesaggio, oggetto) tiene il mondo nella sua quadratura di cielo, terra, divini e mortali, lo si sente agire in essa, in una tensione com-movente. I quattro, infatti, si muovono insieme verso di noi, che siamo della stessa sostanza, ci scuotono intimamente, affinché ci si ponga in ascolto vigile della "briciola smagliante" che ogni cosa è nel grembo del mondo. Ogni cosa in effetti luccica in questi versi, ma per spostamenti minimi, per gioie e dolori senza clamori, perché tutto è piccolo e grande allo stesso tempo, caduco e immortale. E lo stesso tempo ha sempre due volti, due vie, appunto: l'altro e il basso, la luce e la tenebra, la parola e il silenzio, e ciò perché, come scrive la stessa Travi ne L'aspetto orale della poesia,(1) "la lingua materna [...] lascia andare sia il trionfo che l'orrore". E lo fa perché "è concreta, non astrae [...] narra per eventi, dice e quel che dice lascia subito scomparire".

Contrapposta alla logica del dominio, dell'essere uno eternamente uguale a se stesso, Travi pratica una poesia dell'in-comune proprio della relazione madre neonato, nomina quel tratto del conoscere in cui i confini del proprio corpo toccano quello dell'altro, laddove il neonato riconosce se stesso nel luccichio dello sguardo materno, nelle sue labbra dischiuse, e la madre vede nel figlio l'altro da sé che la completa, in una commistione mancante di nulla fra fisicità ed emotività. Così succede in questo libro, dove il Tà annuncia, fra le innumerevoli altre possibilità che Travi stessa ci suggerisce, "la natura plurale delle cose e degli esseri del mondo". Tà, in definitiva, come il "tempo" in Derrida, si fa dono che, sottraendosi, rende possibile l'offerta di quanto – cose ed esseri viventi – in esso si apre, costantemente sorgivo e che passa, disseminandosi nei racconti degli altri, nella memoria di chi c'era, nel desiderio di esserci stato. Sotto questo aspetto, Tà è la differenza stessa, ma detta come lo farebbe un monaco Zen: battendo sulla fronte dell'allievo, affinché questi esperisca l'offerta e la biforcazione, l'inquieta sua pace in cui lo stesso tempo è il dono e il donante, l'io-tu che, in Ida Travi, per aprirsi alla gioia deve accettare il dolore, l'imminente nascita, l'ex-sistere che inaugura il "duetto iniziale" neo-madre neo-nato, come essa scrive nell'Aspetto orale, tragico eppure ricco di promesse, nello stesso tempo.

(1) Ida Travi L'aspetto orale della poesia Anterem 2000, 3°ediz. Moretti&Vitali 2007
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Ida Travi
Tà poesia dello spiraglio e della neve
Moretti&Vitali , febbraio 2011
pp.160
Euro 14,00

recensione di Marina Corona

http://www.poesia2punto0.com/2011/04/29/ta-poesia-dello-spiraglio-e-della-neve-2/

C’è un luogo desolato così disorientante e precario che potrebbe essere perfino una casa scoperchiata, con il cielo per tetto. In questo luogo, dove ogni cosa è in bilico e vacilla, si muovono la voce narrante e i vari personaggi dell’ultimo bellissimo libro di Ida Travi : “Tà poesia dello spiraglio e della neve”. E se lo spiraglio lo troviamo per lo più in un luogo di umana costruzione, la neve è elemento naturalistico e cade dal cielo in questa improbabile casa. “Tà” è dunque il luogo della casa priva di tetto, ma questa casa è anche il cosiddetto villaggio globale: è un luogo, rappresentato nell’essenzialità estrema della scrittura, dove il concetto di ‘abitare’ vacilla e muta, dove i personaggi sono oggetto di continuo spaesamento, dove anziché ritrovare se stessi i personaggi si perdono e si sperdono continuamente, privati come sono di qualsiasi storia personale o tradizione che possa dar loro un’identità solida e consistente.
Se il luogo è quasi un non luogo, il tempo non è meno straordinario: in “Tà”, la casa scoperchiata, i personaggi e la voce narrante vivono in una incombente attesa, sono in un tempo precario, non a caso l’autrice stessa nella prefazione chiarisce che essi “sono post: post studenti, ex lavoratori, viandanti”: una ‘non categoria’ del mondo moderno irretita nell’attesa di un’improbabile soluzione alla propria precarietà. Essi aspettano che la loro povera vita abbia uno sviluppo tale da mettere ordine e consequenzialità, che si ripristini  la trama solida e logica dei fatti, interrotta chi sa quando e mai più restaurata, oppure sono in attesa che un avvenimento improvviso salvifico e finalmente confortante faccia irruzione nel loro mondo disarticolato. Tuttavia quest’attesa non è motivata, anzi si respira nell’aria non so quale scoramento, quale improbabile vicenda di un migliore futuro, quale presagio d’inconsistenza per cui l’attesa è destinata a prolungarsi indefinitamente e questo avvenimento benefico che sembra tanto prossimo, quasi sul punto di realizzarsi, non si realizzerà mai.
Che cosa si salva dunque in “Tà”? La risposta sembra una ricetta banale e tuttavia non lo è affatto in questo traballare dello spazio e del tempo quasi fossero due tavoli azzoppati che a fatica, non si sa ancora per quanto, si reggono in piedi: in “Tà”, questa è la risposta, si salva l’amore. C’è infatti un legame partecipe e in qualche modo affettuoso tra la voce narrante e i suoi interlocutori dai nomi estranei a qualsiasi nazionalità:  Sunta, Olin, Attè, Inna, Antòn,Katrin,Usov. Che cosa in “Tà” lega la voce narrante ai suoi compagni? Certo la comune inquietudine per qualsiasi coordinata spazio-temporale che li contenga, certo il comune senso di un’attesa incombente dell’avverarsi di un nuovo evento, tale da metter fine all’angoscia, ma che non si avvera mai, certo l’insidioso disagio per uno stare impossibile in questo ‘non luogo’dove:
…..
Tutta la famiglia apre i fazzoletti/ piange come un fiume/ La famiglia si butta nei fazzoletti
piange come un fiume/ i pesci guardano con gli occhi rossi
…..
Tuttavia li lega anche l’amore. E’ un amore fatto di ansia, preoccupazioni, richiami, implorazioni, doni, quasi la voce narrante si protendesse verso i suoi interlocutori, a volte richiedente:
Sunta…/ vieni e leggimi il cuore!
Povero albero nella bufera/ Con quei candelabri rami…/ Sunta , Sunta…
A volte donativa:
….                      dietro al vetro
sorgeva luminoso/ il viso del bambino più piccolo/ E’ vero o no che vivremo qui per sempre/ E’ vero o no che questo sorgere perenne/ lo chiamano famiglia?
A volte recriminatoria e imperativa:
Sta’ bene a sentire, quando torno a casa/ non voglio vedere quella faccia/ Vuoi il dolce,ti porto il dolce/ Vuoi il pane? Ti porto il pane/ Ma chi ci pensa a me?
……
Come si vede, nonostante la precarietà dell’abitare a “Tà” i dialoghi sono intensi e fortemente coinvolgenti anche se mai risolutori: colui che viene interpellato non risponde e le parole dell’interlocutore, anche se dirette a uno dei personaggi dai nomi bizzarri e così cariche di pathos, sembrano cadere nel nulla. Non si sa se l’ascoltatore  raccoglierà queste parole, le farà proprie, corrisponderà o protesterà. Si sa solo di questo dire a tratti materno, a tratti da compagna:
…
Noi abbiamo l’amore, Olin
…
che risuona nella casa senza tetto e apre a tante sfumature della parola in questo luogo degli affetti incerto, instabile, indicibile,questo luogo che è in realtà la casa di tutti noi. (Marina Corona)
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Ida Travi
Tà poesia dello spiraglio e della neve
Moretti&Vitali, febbraio 2011
pp.160
Euro 14,00

recensione di Alessandra Pigliaru
http://gliocchidiblimunda.wordpress.com/2011/03/13/ida-travi-ta-poesia-dello-spiraglio-e-della-neve/

- Sbrigati, sveglia il bambino!
*
Io volevo un amore non questa conversione della pena
*
Ecco il mio segreto testamento || C’è al mondo un sasso, lucido come il ginocchio ! duro come un’idea
Se l’innocenza non può essere reclamata, la responsabilità su di essa, come sguardo della cura in un mondo che cedevole si sposta, è forse il modo di saperci ancora figlie e figli. Di accorgerci che quella unione, dapprima sparpagliata e poi radunata in nidi di grazia, esiste e ci chiama – abissalmente. Ma c’è un ulteriore movimento che, risalendo il principio, recita ancora il proprio battesimo di sasso e fuoco [1]: Cos’è questo gettarsi sempre avanti | come un sassolino… | Siamo forse nati per questo abbandono? || Avanti, lascia il ramo || Sentirai centomila consigli risuonare tra le fronde | per di là, dove è entrata la luce | per di là, dove è entrata la luce | Il mondo dopotutto è tuo fratello, e resta vivo. Il mondo dunque è nostro fratello, è colmo non in misura ma in tonalità affettiva; ci è prossimo, il mondo, così come il coraggio di saper scegliere la luce e quello di mantenere alta l’attenzione.
Il nuovo lavoro poetico di Ida Travi si apre all’insegna del post. Un dopo che avanza e che è adesso, un modo di fermare con il polso teso di lancette ciò che è (s)fuggito dalle tasche della Storia. Insieme a ciò che riemerge, modificato e cogente in un unico coro. Una ricerca ininterrotta di dire l’essere in molti modi, di dirne la pluralità non neutra ma differente. Incontrovertibilmente salda.  La cesura di Tà. Poesia dello spiraglio e della neve (Moretti&Vitali 2011) sta soprattutto nei luoghi inesplorati dove la poeta porta con sé simboli e cifre che la contraddistinguono cercando nuove tracce, nuove foglie che sanno sollevarsi fieramente, come un preghiera : Inna, mostrami il piede sicuro || C’è un fiore | sotto il piede sicuro || getta la croce|| la zolla è calda | l’erba cresce come una santa.
*
I luoghi sono quelli del distacco, di quello strappo che si avverte nell’onomatopea del titolo. Ma anche un rinnovato ritorno, come una soglia che non resta più in penombra ma si fa porta a cui bussare rumorosamente per dire che sì, siamo qui e pretendiamo una possibilità di felicità. Tutto era a posto, tutto era perfetto | poi è venuto l’uomo con la falce | e s’è preso tutte le nostre fragole || Allora sono scesa dalla sedia regina | alzando le braccia al cielo || Sono scesa dalla sedia regina | portando le mani al petto || Tutto era perfetto, cento colombe | sono volate in cielo, come un ventaglio | in cielo le fragole antiche dormono | nel fazzoletto nuovo. Lo spiraglio è dunque la possibilità dopo il taglio, l’intermittenza del vedersi, quella apertura sorgiva come una parola che ha già scontato la purezza e cresce nonostante la neve. Nonostante le mani al petto. Quel cuore festante infatti sa inerpicarsi per le scale della narrazione come ciò che resta dopo l’offerta. Il blu sotto l’occhio | dice che c’è un paradiso | e si chiama occhiaia (…) | Tu non sei stata chiamata al sacrificio. È un rifiuto a cogliere il peso che non appartiene solo a noi ma che, lento, viene finalmente spartito. Anche qui il taglio, la divisione che è più un dirimere cosciente tra la lingua e la bocca, senza colpa. Perché il nostro fardello è impastato d’amore e Ida Travi non lo ha mai taciuto. L’erba ci chiede scusa | ma noi non perdoniamo, vero? || Legheremo i capelli alle radici, avremo | il bene eterno, non questa colpa, vero? || Noi abbiamo l’amore, Olin || È una ruota in discesa, non lo fermi | è come il fazzoletto quando cade | noi saremo felici in terra | non staremo per sempre in questo enigma. Il vagito lascia il posto al pianto ché (…) fuori c’è il signor boia | ci sono gli invasori della culla. È in terra che si deve rispondere, che si deve reagire. È all’angolo degli ultimi che abita il rimedio dell’urgenza, di dirsi unite e uniti verso la minaccia dell’inautentica ritualità che allontana. (…) Piange come farebbe un animale penitente | come uno che sta nella vergogna | Cosa credi che sia quel pianto | cosa te ne fai di quel lamento… || È solo una goccia al triangolo dell’occhio | del nostro occhio, intendo | adesso cosa c’entra Dio? Non può esistere finzione, non si possono nominare le cose sperando che vengano svuotate di significato. Non ci si può appellare alle scorciatoie. Tà è oggi. Tà sono le cose stesse, quelle accadute per sbaglio e le altre che ci chiamano a non poterle più ignorare. Ritorna in te, tògliti dalle rose || Superbe nella loro natura | svettano nel colore | come irriducibili bandiere || Questa è la verità, Inna | non puoi discutere con le rose | hanno sempre ragione loro.
*
Come fossero tessere di un mosaico che ora si scorge per intero, segnandosi in contatto con l’ordito poetico profondissimo, il bambino si declina nei nomi mondiali che accompagnano i versi. Così incrociamo Inna, Olin, Katrìn, Attè, Usov e Antòn. Sono loro che sono arrivate e arrivati alla parola di Travi per farsi largo tra i frantumi di ciò che è avanzato e di ciò a cui ci siamo sbadatamente abituate/i. Loro si fanno testimonianza corporea della dimenticanza. E gridano. I loro nomi contengono la voce di chi non ha mai avuto ascolto, di chi non domanda perdono. È Travi che ci avverte di ciò, sia nella premessa poetica al libro che alla fine della silloge, a dichiarare che la separazione non corrisponde una volta per tutte ad una mancanza di beatitudine terrena: Chi sono loro? || Post-studenti, ex-lavoratori, esseri comuni || E perché sono qui? || Vivono con noi || Dici sempre – con noi | ma che vuol dire noi | noi chi? || Guarda com’è alta la neve adesso … | ci supera.
*
Quell’essere è nelle tue mani | non puoi andartene in giro così | senza di lui sei salva || Poi venne quel grido da sopra || Solleva il grembiule! | Fammi vedere la lettera | La mano che stringe la rosa | apre la porta alle spine | sul foglio c’è scritto | – SCAPPA! – || Dentro ci stava un nocciolo | e tu, e tu … Il rischio del male non può interrompere l’accadere. Il nocciolo della questione è più importante e a nasconderlo dietro la schiena, come fa Inna davanti al verso di Travi, ci si ferisce la mano. E sebbene si rimanga vive non si fugge. Come a dire che si r-esiste altrove detonando il circostante di fiori che esplodono di premura. E sui fiori la poeta si sofferma lungamente in più di una pagina; il candore non esige redenzione ma è un esempio di ordine. Dite ai petali ch’è tutta colpa loro, tutta colpa | della loro tenerezza. Dovevano pur dire che pena | sbocciare in aprile e finire di colpo | sotto lo zoccolo d’un cavallo… || ma se solo tendete l’orecchio, se solo tendete | l’orecchio e ascoltate, sentite anche voi quel respiro | quel fiato? || La neve è caduta sulla neve, l’erba è cresciuta | sulle nostre mani. Inseparati stanno in quel biancore che ora è neve e giglio. Quando ci si allontana dalla casa però le cose si spaccano in due. Viene detto a Olin, proprio a lui che rappresenta la povera cecità del mancato governo, della ingordigia sregolata per mantenere l’anima tutta intera. È per questo che il cielo si confonde | è per questo che l’albero mi guarda e tace. Quanto tempo dovrò aspettare, si chiede la poeta, quanto tempo prima che tu mi riconosca.
*
Ecco l’altare, e adesso cosa vuoi? l’agnello? || Non ti basta bruciare i vestiti? || Nessuno alza gli occhi, tutti se ne stanno | a testa bassa, come castigati | come bloccati da tremiti nervosi || Come cinque dita sul tronco | come trenta mani sul ramo | come la falce in casa | lasciata dietro la porta || là dove chiama il silenzio dei corvi | là dove regna l’eterna fame dei nidi. L’albero è una mappa di segni, di rami dileggiati di carezze. L’albero che si declina in quercia che consegna il pane e simbolo muto della terra, si rompe anch’esso; se ne intuisce lo spasmo nonostante il tocco lieve. I corvi non lasciano spazio, non consentono di respirare. Hanno celebrato l’inganno dei vinti facendolo passare per una sbadataggine. Camminerai col fazzoletto sulla bocca | parlerò per te, ma io non c’entro niente || Il padrone è quello che fa il nodo sulla nuca || Ti dà l’etere quando devi svenire || E chi lo vede più il tramonto?
L’abitudine è una modalità di seconda scelta ma parimenti inevitabile se si osservano i segni e le scosse a cui non si è potuto reagire. Eppure c’è un fuoco a dissipare congetture, c’è una mosca che se prima era sulla guancia del bambino ora è lì a dirci che il pericolo è scampato in nome della noncuranza e dello scollamento tra l’essere e il dover essere: Poi ti abitui. Vedi le cose passare | e ti abitui. La mosca ti passa davanti al naso | la vedi sparire, e ti abitui || Vedi crescere il ramo, lo vedi spogliarsi | ti abitui. Vedi scendere il buio, ti abitui || come una candela, ti abitui, sono cose | che non puoi rompere || Quando cade il pettine ti abitui | è caduto il pettine, tutto qui | è caduto per la testa troppo alta | tra le stelle || Le stelle passano, ti abitui, il camicino | passa davanti agli occhi, come una volta | come una volta la terra ruota | il carro è triste, triste.
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Non entri nell’acqua, Attè? || Corre veloce il fiume, corre veloce | come il nostro desiderio … || Desiderio? || Sì, Desiderio! Ecco il suo nome, Attè | così lo chiameremo! || E non dirmi che non ti piace | il bambino è immortale, lo sai. Il desiderio è ciò che salva realmente, è quel che muove il nuovo sogno e l’agire. È il taglio aperto, la fonte perpetua del nutrimento in capo al soggetto femminile tanto caro alla poetica di Ida Travi: Sono scesa nel solco fiorito | vedo benissimo l’oscurità del cielo | ma non mi interessa, non mi interessa || Rimango qui, nel solco dell’aratro | Io non aspiro alla sua corona.
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Io sono all’altezza dei fiori. E cucio quel che mi corrisponde.
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Il mondo era caduto dietro l’occhio, ecco | perché non si vedeva più!
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Io sono a conoscenza d’un mistero | so l’ordine preciso d’un mistero || Svaniranno i fiori dappertutto | ma io non svanirò. Lo giuro!
[Alessandra Pigliaru]
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[Tutti i corsivi corrispondono ai versi di Ida Travi tratti da Tà. Poesia dello spiraglio e della neve, Moretti&Vitali 2011]
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[1] Non c’è scelta: è un battesimo di sasso: il modo in cui si nasce è qualcosa di assegnato per sempre, come un dono o un danno sul quale poggerà il nostro compito. Quale compito?
È un battesimo di sasso, una pietra da stringere nel pugno. Cosa resta da fare?
Star lì tutto il tempo col sasso in mano?
[da Ida Travi, Il gioco pesante di tutta la vita, in Chiara Zamboni (a cura di) Il cuore sacro della lingua, Il poligrafo, Padova 2006].

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 Ida Travi
Tà poesia dello spiraglio e della neve
Moretti&Vitali, febbraio 2011
pp.160
Euro 14,00

recensione di Rosa Pierno
da TRASVERSALE

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La scena disegnata dal libro di poesia di Ida Travi “Tà. Poesie dello spiraglio e della neve” Moretti &Vitali, 2011, è affollata da oggetti e parole, entrambi utensili, eppure con una pala non si può scavare un’anima. Pare un ostacolo ineludibile. Una di quelle evidenze tragiche, come un  mare separato in due. Né basterà togliere il cappotto per mostrare le spirito. E’ dichiarata guerra, è mostrato il taglio non rimarginabile, l’assurdo (richiamato anche nel breve antefatto in cui si fa riferimento all’attesa beckettiana di non si sa di chi) compito che siamo chiamati a dirimere semplicemente perché esistiamo.

Eppure non peritano, le cose, in un subdolo trasformismo, di assumere le sembianze dell’immateriale.  Musica sarà gesso che picchia in testa.  Neve diventa muro. E tutto questo determina  anche la sensazione che i simboli siano rivoltati o ipertrofici: troppi significati stratificati, fra i quali non si può più selezionarne uno trainante, che abbia il valore, appunto, di un simbolo. Il passo è breve: immediatamente essi assumono una sinistra autonomia: “Come poteva il sole brillare così / sulla nuca nera, sulla schiena nera?”.  Le immagini, innescate da tale proliferazione semantica, vengono infilzate  come perle per comporre collane di storie: “ Ci vuole un tamburo tale / da mettere i sassi in cammino. // Tu cerca nella neve la briciola smagliante // Segui il polso infantile, seguilo / fino alla fiamma, fino al colletto bianco”. Storie scompaginate, brandelli di storie, o meglio, nuclei da cui può partire un intero racconto, una saga. L’innocenza del racconto, riposando su un suolo infido. Saranno ancora quegli stessi simboli a mostrare la doppia faccia di ogni medaglia, l’altro  aspetto delle cose, quello raccapricciante: che slega e fora. Inutilmente si farà riferimento al sonno come elemento riparatore, che solleva da tale stressante realtà. Non sarà che il sonno procura gli stessi deliri presenti nel linguaggio? La trappola è perfettamente delineata nei suoi meccanismi, nelle cesure che causa, negli impedimenti che determina. “Olin ti sbendo. Tu guarda / dall’altra parte, guarda / se per caso è fiorito il braccio/ come è semplice la testa adesso”. La desiderata pacificazione può darsi sia solo desiderio di una convivenza possibile. E comunque non è detto che l’incubo non svanisca. Potrebbe diventare sogno. Anche se è più probabile che visioni serene e incubi non siano separabili, che mescidino i loro regni. Probabilmente una possibile via  d’uscita consiste nello spezzare gli oggetti, nello svelarne i meccanismi di funzionamento: “Chi è stato?! / Chi ha spezzato il ramo? / Era la legge / Resisteva, come un abete / E adesso? / Si vede l’età / Si vedono i morti attraverso i secoli”.
Lì dove niente è come sembra, mantenere la calma è  azione eroica. Ritornare in sé, pare una strategia sufficiente: limitare l’uso delle parole sembra certo azione paradossale in un poeta. Ma non pare ci sia scelta: “non puoi discutere con le rose / hanno sempre ragione loro”. La coscienza è assediata e nello stesso tempo si sa che è lei che produce le proprie catene. Il poeta attua una strenua resistenza e denuncia lo stato di fatto. Sono continui gli incitamenti che i personaggi sulla scena poetica si rivolgono per tenere tutto sotto controllo: “Sii te stessa, per favore, lascia stare / il fantasma, metti via / quella stupida pala argentata”. L’intero poema appare come una fabbrica di immagini visionarie le quali vengono prodotte e rifiutate, affiorano e si allontanano. Dicevamo che la scena teatrale in cui i personaggi sono messi in dialogo è la scatola a cui il teatro contemporaneo ha affidato il compito di esprimere la gabbia esistenziale dell’epoca attuale, in cui il tempo è però un elastico: consente di passare attraverso i secoli, di ottenerne la compresenza, di sentire le voci dei morti, e proprio mentre la scatola diventa il meccanismo che intrappola, mostra sulle pareti interne dinamiche metamorfiche, paesaggi innevati, cieli inondati di luce. E anche il soggetto, in questo contesto ambientale, diviene oggetto, effettua la medesima metamorfosi delle cose: “Sono forse un martello io? Sono forse / un dannato martello colpevole di qualche cosa?”. Non estranea in Ida Travi anche l’eredità kafkiana, poiché ella descrive un’umanità che dalla  ferrea legge è resa colpevole.  Se a legge verrà opposto amore c’è da credere che non sarà atto risolutivo. La richiesta di essere sbendati, di vedere finalmente come stanno realmente le cose, di svellere il potere delle idee, forse esprimerà l’esigenza di restare aderenti alla pelle delle cose: “quello è il tuo osso, Attè / quello è il tuo fondamento”. Una soluzione può essere, dunque, quella di trasformare le parole in oggetti o è quella di far intervenire qualcuno, di cui l’attesa è segno. Favole crudeli si succedono senza interruzioni di continuità, favole disseminate di oggetti: sassi, fragole, alberi, neve, foglie, pane. Ma non sarà proprio la capacità della poesia a donare la possibilità di non essere banali, di  non abituarsi a nulla, di non accettare niente come dato e tutto ricreare? Non è che retorica domanda. Parola è trappola e liberazione insieme.

                                                                                                                  Rosa Pierno

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Ida Travi
Tà poesia dello spiraglio e della neve
Moretti&Vitali, febbraio 2011
pp.160
Euro 14,00


Commento di Luce Tondi 
per questo spazio

Ho letto Tà e mi è piaciuto moltissimo. Mi colpisce, qui come in altri lavori, un costante senso d’impotenza, di catene da sciogliere, di “neve da spalare”, che non è tanto psicologica quanto fisica, resa da immagini forti, come “il cielo era nero, era un secchio sulla testa/  il cuore era un cucchiaio con le braci dentro”; ma l’energia per reagire c’è, “guarda il raggio di luce” “sono una parente della luce” Anche la natura, gli animali sono parenti,  in “salivamo verso il poggio” l’asino che sale e condivide la fatica è visto con oggettività, senza tenerezza, ma come un essere simile “salivamo il sentiero come parenti”. Ci sono risonanze classiche, mitiche:“li vedi quegli uccelli in volo? Io sono a conoscenza di un mistero”.
Negli aspetti che riguardano la casa, “la mela, il pane, il cucchiaio” quasi echi cecoviani, forse per la scelta di nomi, come Antòn, che rimandano alla grande letteratura russa.
A  volte scorgo, sempre nell’assoluta “oggettività” della narrazione, un dato ironico, perché la realtà anche tragica, a volte lo è: “ il nocciolo della questione/ ti ferirà la mano… Tutto cadrà/ le campane scenderanno dai campanili” oppure quell’arguta immagine “il blu sotto l’occhio dice che c’è un paradiso e si chiama occhiaia”. Il contrasto sta tutto in una forma di espressione che definirei appunto obiettiva, aderente alla vita concreta delle persone, e nello stesso tempo profondamente rarefatta nella sua tragica astrazione, con quegli interrogativi tutti senza risposta, per cui l’unica possibilità è resistere, farsi forza. Anche se il dramma è perentorio “sei troppo vicina alla morte/ sei a rischio”  alla fine “torneremo a casa? / Sì / torneremo a casa”
                                                                                                            Luce Tondi


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