recensione del filosofo Vincenzo Vitiello a TA' poesia dello spiraglio e della neve


TA'
poesia dello spiraglio e della neve 
Moretti&Vitali Editore
febbraio 2011
pp. 186
Euro 14, 00
( Selezione Premio Viareggio 2011)          

                                      
                                            in copertina : Omaggio a Fontana


'Omaggio a Ida Travi'
di Vincenzo Vitiello 
 presentazione per  Salotto Caracci settembre 2011

 Difficile entrare nel cosmo poetico di Ida Travi, che, aperto a tutte le voci del mondo, tutte le accoglie trasvalutandole. Non è l’operazione comune all’uomo come all’animale, come alla pianta, l’operazione che è propria della vita, che cresce su se stessa nutrendosi dell’altro da sé; neppure è l’operazione che l’ermeneutica contemporanea ha teorizzato come ‘fusione di orizzonti’, che si attua nel dialogo tra uomini, appartengano essi alla stessa età o non, alla medesima storia e civiltà o non. È qualcosa di profondamente diverso, ché Ida non assimila l’estraneo a sé, all’opposto, tenta di farsi estranea con l’estraneo, e così lo trasvaluta, lo rende altro da quel che era, rendendo se stessa altra da sé. Perciò quando dialoghi con lei, hai la sensazione che ti penetra nell’anima, e quel che hai detto, te lo restituisce cambiato, diverso, non dico più profondo, certo più intimo. Dopo che hai parlato con lei, ti senti legato alla tua parola: ecco son io, quel che ho detto son io. Sono la mia parola. E invece è il dono che lei ha fatto a te. La tua parola te la restituisce ‘più’ tua.
            In  – libro non difficile, difficilissimo – l’operazione è più complessa. Hai immediatamente l’impressione che Ida non abiti più il tuo mondo, il mondo di tutti e di ciascuno. In certo modo questo mondo – il comune, quotidiano mondo in cui ci muoviamo, pensiamo, viviamo – non c’è, non c’è più, posto che mai ci sia stato. E non è che ce ne sia altro. Le parole di questa “poesia dello spiraglio e della neve” sono le più comuni ed usuali, sono le parole d’ogni giorno: pane, casa, porta, pettine, ramo, sasso, cappotto…, la meno usuale è “calendula”, il nome di un  fiore; e comuni, sommamente comuni, quotidiane, sono le frasi, nelle parole, nell’accento, nella sintassi: “Sta’ bene a sentire, quando torno a casa / non voglio vedere quella faccia”.
            Cosa v’è di ‘poetico’ in questa frase? “Ci vuole un bel coraggio / per questa poesia: sono capaci tutti” – così Ida, parlando di sé, meglio: parlando di questo suo ultimo libro di poesie.
            Cosa c’è di poetico in questa frase? Rispondo con le parole di Paul Klee, che all’osservazione di una signora: “Maestro, anche mio figlio di sette anni sa fare disegni come i suoi…”, replicava: “Bisogna vedere, Signora, se saprà farli quando ne avrà cinquanta”.
            C’è da credere che quella signora fraintese affatto la risposta, scorgendovi l’ennesima riproposizione della ‘poetica del fanciullino’. Klee, per contro, aveva detto, adeguandosi alla simplicitas della sua interlocutrice, che la poesia – quale sia la forma che volta a volta si trova ad assumere – esige l’abbandono del comune e del quotidiano, della logica ripetitiva, abitudinaria del ‘buon senso’. L’abbandono della ‘storia’. E della ‘cultura’.
            Ma Ida Travi sembra proprio affidarsi al comune e quotidiano, al più comune e quotidiano, al punto che quando sembra levarsi fuori da tutto ciò,  e-levarsi: “Entrerò nelle tue orecchie / dormirò nelle tue mani // Sale il bisbiglio / rampicando fino in cielo…”, subito si piega su di sé, si volge al basso, cade, cade su di sé: “Cosa fai, benedetta figliola / ti metti a sognare, adesso?”

            In ciò il ‘segno’ di Ida Travi: nel contrastare la parola comune con la parola comune, il quotidiano e ripetitivo col quotidiano e ripetitivo, il buon senso col buon senso, in tal modo accantonando ogni pretesa di ‘novità’. E di originalità. 
            Il mondo è ciò che Ida Travi porta, completo, senza residui, nella sua poesia.  E il tempo, il tempo del mondo: tutt’intero, senza resti. Ma il mondo com’è: non l’ordine della parola, non  il cosmos, e neppure il caos. Ma entrambi, perché entrambi fanno mondo.
           
            “Si lancia su per il cielo

            benedetto il suo vuoto in cielo
            benedetto il suo nastro giallo

            sfilano i decenni
            sfilano a passo d’uomo

            benedetto il suo vuoto in cielo
            benedetto il suo nastro giallo.”

            Viene spontaneo pensare: comuni sono le parole, e quotidiane; di buon senso i loro nessi immediati, all’interno di una singola proposizione; non comuni, e senza senso le relazioni tra le frasi, i rapporti di un distico con quello che segue, tra una strofa e l’altra. Ma non è proprio così. Anche tra le strofe più lontane puoi trovare nessi nascosti, o, forse, ‘inventarli’… Sì, anche ‘inventarli’.
            Ma non è questo che conta in questa poesia che certo vuol liberare il comune dal comune, liberando le ‘cose’ dai nessi del pensiero, dall’ordine della logica – dalla pretesa umana, troppo umana, solo umana di legare il disperso, di costringere all’uno il molteplice.
            “Gli antichi greci con Tà annunciavano la natura plurale delle cose e degli esseri del mondo”. Così leggiamo nell’ouverture dell’opera, che ci rimanda all’esergo di Fontana “C’è l’infinito là dentro…”, ed all’immagine di copertina. L’infinito non è la totalità che tutto comprende: l’in-finito è il non-finito, l’incompiuto che toglie compiutezza e finitezza alle cose, che rende molteplice il singolo, che rende dividuo l’individuo. ‘Infinito’ sono i tagli di Fontana che rinviano a un ‘di là’ che non è oltre le cose, e fuori, ma ‘dentro’ le cose, nel loro ‘essere’.
            E qui si rivela – a me, ed è una rivelazione affatto singolare, che non ha pretesa alcuna di valere per altri, e tanto meno di dire cosa veramente significa Tà poesia dello spiraglio e della neve –; e qui mi si rivela il ‘senso’ della parola poetica di Ida Travi, la sua essenza, ciò che la costituisce: lo sguardo, non il neutro vedere, ma lo sguardo, il suo sguardo che ti affascina e insieme ti inquieta, perché nella sua chiarità, come d’acqua o d’aria, sonoesistono “la mela, il pane e il cucchiaio” – e casa, porta, pettine, ramo, sasso, cappotto, calendula … – e non sai se è lo sguardo che attraversa le cose, o non piuttosto le cose che attraversano il suo sguardo.

            E qui non c’è più da capire, da riflettere, da pensare. Capire, riflettere, pensare appartengono al passato, ai tentativi compiuti per entrare nel mondo di questa poesia. Quando ne sei dentro – posto che ne sei dentro – capisci che non c’è più da capire, c’è da sentire. Sentire, che non è sentimento – l’abusato sentimento poetico – ma senso, senso della Terra, senso di un’appartenenza più profonda d’ogni comunità; senso di una partecipazione che non abbandona l’umano, ma è oltre l’umano; senso di una prossimità non esprimibile con il “con”, il “cum”, il “syn, il “Mit”; di un’appartenenza che dice: “essere-accanto”, Neben-sein. Essere-accanto a uomo e animale come a fiume ed albero, a foglia e sasso, a vento e pioggia; come a muro, e ferro, e ruggine…

            “Guarda come indietreggia il bambino
            davanti al rocchetto nero…

            Chiamalo, dàgli l’insegnamento

            Sei l’ombra sul muro
            Sei la ruggine sul ferro

            Gli animali sono felici – diglielo –
            gli  animali amano il bambino nuovo

            Li vedi? Escono dai nastri saltellando

            Escono dai nastri saltellando sulle zampe felici
            sono altissimi, altissimi…”

            Ma non è solo felicità:

            “Nella luce del vero amore
            vedrai gli orribili insetti neri
            e con la lampada alzata verso sera
            con tutti quei puntini, aspetterai
            in piedi sulla porta, aspetterai,
            il passo argento, il buio della sera.”
*


TUTTE LE RECENSIONI alla data di febbraio 2012

ESTRATTI

* dalla nota di Luca Benassi
in AlmanaccoPuntoaCapo gennaio 2012

...Poesia dello spiraglio e della neve, ciò che viene visto è subito ricoperto: idee oggetti, abitudini, sono soggetti a un continuo processo di impalpabile scomparsa nell'indistinto, in una neve che, se con il suo candore è segno di purezza, con la sua gelida uniformità conduce verso una massificata omogeneità. Sbucano come pennacchi i versi di questa poesia: distici, strofe di pochi versi, battiti, esclamazioni. Ciò che rimane di un mondo freddo e austero, il nostro mondo di contemporanei.  (Luca Benassi )


di Franca Rovigatti  Il Manifesto  6 maggio 2011
 "...Ogni cosa in effetti luccica in questi versi, ma per spostamenti minimi, per gioie e dolori senza clamori, perché tutto è piccolo e grande allo stesso tempo, caduco e immortale. E lo stesso tempo ha sempre due volti, due vie, appunto: l'alto e il basso, la luce e la tenebra, la parola e il silenzio, e ciò perché, come scrive la stessa Travi ne L'aspetto orale della poesia,(1) "la lingua materna [...] lascia andare sia il trionfo che l'orrore. (...)"

*  in QuiLibri gennaio 2012 (Librerie Feltrinelli) 
a cura di Marina Corona dall'intervista
   D.  Come tutta la tua produzione ha un aspetto che definirei enigmatico. Tu dici, nella quarta di copertina che Tà è un luogo: “… forse una casa, forse un’ex fabbrica …” e che il suo nome dipende, per analogia, da parole come: “… taglio, tavolo, tasca … carità …” queste affermazioni rendono da sole ragione del clima enigmatico che circonda “Tà”. Ora io ti pongo due domande, una generale e una più personale: la vita per te è un enigma irrisolto o un processo in qualche modo consequenziale? E poi: nella tua esperienza di vita c’è un enigma?
R. In copertina Tà, poesia dello spiraglio e della neve mostra una tela bianca tagliata. E’ un omaggio a Fontana. Da un lato l’immagine dice il bisogno di rompere con lo stato delle cose e d’altro lato dice del taglio che io stessa ho inferto al mio linguaggio, riducendolo all’osso. Ma un taglio su una tela è anche uno spiraglio, ristabilisce il dentro e il fuori, ti ridà il limite d’un mondo. E’ una fessura e ti ricorda che c’è un oltre, aldilà del punto in cui sei.  Dopotutto la vita stessa comincia così…Con TA’ ho  cercato di spogliare la poesia d’ogni orpello. In TA’ c’è una certa adesione alla realtà, però come da sopra, sì, c’è una specie di sur/realtà. C’è il mondo naturale ma si pensa a qualcosa di sopra/naturale. Come se lì, in TA’, il reale coi suoi pochi oggetti sparsi, sforasse nello spirituale. Cosa c’è di sopra/naturale in una vanga, in un ramo, in un cucchiaio? Non so, del resto niente di sopra/naturale si acquista direttamente da una dimensione spirituale, bisogna prima aver a che fare con la vita materiale, e c’è sempre un passaggio, uno spiraglio appunto, che ci aiuta a passare da un piano all’altro. Da questo passaggio continuo, da questo scentramento nasce forse l’impressione di enigma che hai notato. Un enigma è una domanda che rimane separata dalla risposta. Come la poesia stessa.

* in Poesia Crocetti Editore Dicembre 2011
di Roberta Bertozzi
Estratto dalla recensione in ‘Poesia’ Crocetti (dicembre 2011)
“…E se, come ha scritto Jean-Luc Nancy, l’ontologia è una fonologia, l’impressione è che la poesia di Ida Travi sia proprio tesa a verificare questo assunto; tesa a considerare l’espressione acustica non tanto in quanto medium o come articolazione di un discorso, quanto come rivelazione del nostro essere, di quel primo, e definitivo, stampo di noi che solo la parola a viva voce sa realizzare”.

* estratto dalla  presentazione per  Salotto Caracci settembre 2011
di Vincenzo Vitiello 'Omaggio a Ida Travi'
"...Difficile entrare nel cosmo poetico di Ida Travi, che, aperto a tutte le voci del mondo, tutte le accoglie trasvalutandole. Non è l’operazione comune all’uomo come all’animale, come alla pianta, l’operazione che è propria della vita, che cresce su se stessa nutrendosi dell’altro da sé; neppure è l’operazione che l’ermeneutica contemporanea ha teorizzato come ‘fusione di orizzonti’, che si attua nel dialogo tra uomini, appartengano essi alla stessa età o non, alla medesima storia e civiltà o non. È qualcosa di profondamente diverso, ché Ida non assimila l’estraneo a sé, all’opposto, tenta di farsi estranea con l’estraneo, e così lo trasvaluta, lo rende altro da quel che era, rendendo se stessa altra da sé.
Perciò quando dialoghi con lei, hai la sensazione che ti penetra nell’anima, e quel che hai detto, te lo restituisce cambiato, diverso, non dico più profondo, certo più intimo. Dopo che hai parlato con lei, ti senti legato alla tua parola: ecco son io, quel che ho detto son io. Sono la mia parola. E invece è il dono che lei ha fatto a te. La tua parola te la restituisce ‘più’ tua.  In  – libro non difficile, difficilissimo – l’operazione è più complessa. Hai immediatamente l’impressione che Ida non abiti più il tuo mondo, il mondo di tutti e di ciascuno. In certo modo questo mondo – il comune, quotidiano mondo in cui ci muoviamo, pensiamo, viviamo – non c’è, non c’è più, posto che mai ci sia stato."
(nota intera a piè di pagina)


"da Milo De Angelis (ottobre 2011)
."..sto leggendo Tà, ascolto la sua voce interrogativa e trepidante, l'eterna vocina dei morti nella sera..".

di Roberto Caracci (settembre 2011)
"---Non siamo semplicemente nella scrittura e non siamo semplicemente agli albori del linguaggio -non potremmo più esserlo-, quando la relazione neo-natale e neo-materna io/tu identificava la comunicazione con la percezione e la risposta al miracolo della pura voce materna. Siamo nella poesia che si volge alla propria origine, che lascia filtrare in sé il suono primordiale del mondo, delle cose, del corpo sonoro della madre...
....E' la tensione fra il dentro e il fuori, con la relativa pro-tensione del dentro verso il fuori e del fuori verso il dentro: brecce, fessure, tagli, spiragli nel muro, nelle porte, nelle finestre da una parte, in cui la nostalgia dell'infinito e dell'indefinito si riversa come nelle sforbiciate di Fontana...."
scheda video
* di Fiorangela Oneroso* (settembre 2011) "...Si vive in un continuo stato di stupore a rischio di frantumazione. Infatti, per Ida Travi, la vita è perennemente sottoposta al dominio del “Tà”, il suono onomatopeico che scandisce il passare del tempo, l’inizio e la fine: il taglio di un ramo, la prima sillaba di una parola, la sillaba ultima . Tà, fonema ambivalente. Creativo e distruttivo. Tà, come il bello e il  buono, ma anche come il triste e il crudele. Come il sereno e il tranquillo ma anche come il turbolento e l’inquietante. (...) "

* di Luigi Bosco Ricominciare da TÀ. Per una nuova mitologia contemporanea ( luglio 2011)
"...E a me pare che, con questa raccolta, Ida Travi tenti di fare proprio questo: assumersi la responsabilità di offrire al mondo la possibilità di una nuova realtà, con tutti i rischi che ciò comporta. Lo fa proponendo ciò che a me piace definire una nuova mitologia contemporanea che «narra ciò che in realtà non è, o non accade una volta per tutte, ma si fa, fuggevolmente diventa. (...) 

*di Stefano Guglielmin ( giugno 2011)
 "...In nessun altra poesia come in quella di Ida Travi ogni cosa (gesto, paesaggio, oggetto) tiene il mondo nella sua quadratura di cielo, terra, divini e mortali, lo si sente agire in essa, in una tensione com-movente. I quattro, infatti, si muovono insieme verso di noi, che siamo della stessa sostanza, ci scuotono intimamente, affinché ci si ponga in ascolto vigile della "briciola smagliante" che ogni cosa è nel grembo del mondo.(...) 

*di Alessandra Pigliaru ( marzo 2011)
"... La cesura di Tà. Poesia dello spiraglio e della neve (Moretti&Vitali 2011) sta soprattutto nei luoghi inesplorati dove la poeta porta con sé simboli e cifre che la contraddistinguono cercando nuove tracce, nuove foglie che sanno sollevarsi fieramente, come un preghiera : Inna, mostrami il piede sicuro || C’è un fiore | sotto il piede sicuro || getta la croce|| la zolla è calda | l’erba cresce come una santa." (...)

*di Marina Corona (aprile 2011)
 "....Che cosa in “Tà” lega la voce narrante ai suoi compagni? Certo la comune inquietudine per qualsiasi coordinata spazio-temporale che li contenga, certo il comune senso di un’attesa incombente dell’avverarsi di un nuovo evento, tale da metter fine all’angoscia, ma che non si avvera mai, certo l’insidioso disagio per uno stare impossibile in questo ‘non luogo’ (...)

*di Rosa Pierno (aprile 2011)
"...Storie scompaginate, brandelli di storie, o meglio, nuclei da cui può partire un intero racconto, una saga. L’innocenza del racconto, riposando su un suolo infido. Saranno ancora quegli stessi simboli a mostrare la doppia faccia di ogni medaglia, l’altro  aspetto delle cose, quello raccapricciante: che slega e fora. Inutilmente si farà riferimento al sonno come elemento riparatore, che solleva da tale stressante realtà. Non sarà che il sonno procura gli stessi deliri presenti nel linguaggio?"  (...) http://rosapierno.blogspot.it/2011/04/ida-travi-ta-poesie-dello-spiraglio-e.html


*di Luce Tondi (giugno 2011)
"...Il contrasto sta tutto in una forma di espressione che definirei appunto obiettiva, aderente alla vita concreta delle persone, e nello stesso tempo profondamente rarefatta nella sua tragica astrazione, con quegli interrogativi tutti senza risposta, per cui l’unica possibilità è resistere, farsi forza. Anche se il dramma è perentorio “sei troppo vicina alla morte/ sei a rischio”  alla fine “torneremo a casa? / Sì / torneremo a casa” (...)


Lorenzo Barani su Ida Travi in Derrida e il dono del Tempo Moretti&Vitali 2011
* in Il dischiudersi della bocca e l'alchimia dell'altroNota VIII Il tempo della donna e la differenza:
" quel 'senza' di cui non si può fare a meno"
* in "Le parole che posano i piedi per terra"
* in " ...il dono che nasce dall’agire senza perché" 
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Una nota intera:
Il manifesto
4 maggio 2011
11 CULTURA
2011.05.04
di Franca Rovigatti POESIA

Nei versi di Ida Travi il bisbiglio sommesso della lingua materna

Tà, come tavolo, talamo, tasca. Tà come fine d'eternità, realtà, libertà... volontà... verità,   vanità, carità...: così Ida Travi nell'Introduzione inizia a compitare il titolo del suo nuovo libro, Tà, poesia dello spiraglio e della neve, appena uscito da Moretti & Vitali.

           Lo spiraglio. Travi dice ancora: Tà, come un taglio nella tenda, e la severa copertina, con l'Omaggio a Lucio Fontana, mostra sette tagli verticali su una tela chiara. Spiraglio, spiragli: ma da cui vedere cosa? Un luogo austero, forse una casa, forse una ex fabbrica (...) è un luogo limitato da assi, chiuso da lenzuola... Dallo spiraglio si intravedono oggetti, piccoli movimenti, e si possono udire i frammenti di un discorso continuamente interrotto e continuamente ripreso. Il lettore, incollato allo spiraglio, cerca di mettere insieme indizi, ma il piano dell'azione si sposta di continuo, la scena scompare.

           Attraverso lo spiraglio appaiono gli oggetti di un quotidiano povero e antico, contadino: la vanga, il rastrello, il carro, il cucchiaio, il pettine, il tovagliolo, il cappotto, il pane, la tazza, la corda, la falce, la benda, il martello. Poco di più: sono questi gli utensili di Tà. Gli abitanti sono esseri comuni, sono post. Post-studenti, ex-lavoratori, viandanti... Vanno e vengono. Ripetono sempre le stesse cose, hanno nomi strani, che non appartengono a nessuna lingua. Quel che di loro si riesce a vedere sono frammenti di gesti, baluginii, posizioni. Un vivere muto, sordo: la voce-poeta pone continue, accorate, domande. Come per svegliarli da un incanto che li ha resi sonnambuli. E' la voce profondamente coinvolta di uno che sta fuori, e guarda, ma che sta anche totalmente dentro: Vivono con noi / Dici sempre - con noi / ma che vuol dire noi / noi chi?

           A Tà c'è un'attesa: lo annuncia il titolo dell'introduzione, Tempo d'attesa fra le quattro mura. Ma non si capisce se l'evento atteso sia temuto o desiderato: certo, è tangibile il bisogno che qualcosa arrivi e muti lo stato di inerzia, lo stallo: Non c'è niente di liquido, qui dentro / non c'è niente che scorra, in questa casa. Qualcosa che arrivi come il vento, il bambino, l'amore: Quando tutto sarà al suo posto / saremo felici come colombi / Avremo i capelli azzurri / bianchi come la neve. L'attesa riguarda il futuro, implica il tempo (Tà, come la lancetta che si sposta): ma il tempo è poco,  tutto così breve, qui. L'ordinato procedere del tempo, avverte Travi in epigrafe all'introduzione, è anch'esso un'illusione, almeno a Tà: Impossibile tornare al passato, impossibile guardare al futuro. A Tà sembra non esserci posto per la speranza. Ma c'è la neve. Ci sono gli alberi, i rami, il fiume, l'innocenza degli animali, delle rose, delle fragole. Oltre lo spiraglio, in un suo altrove, la natura si concede alla visione. Non parla, non tace, non risponde, non interroga: semplicemente c'è.

           La lingua di Tà è povera: un vocabolario ridotto al minimo, ma sempre estremamente concreto. Al punto che sembra di vederla nella penombra, la tazza, di poterla prendere dal tavolo di legno scuro, di poterci bere. Una parola tanto concreta da realizzare l'unione di segno, suono e senso, il sogno di ogni poeta, la caratteristica vitale della poesia orale. Su questo tema, o luogo, Ida Travi ha lavorato a lungo (L'aspetto orale della poesia, 3° ediz. Moretti & Vitali 2007): per rendersene conto, basta averla sentita quando dice i suoi testi. Secondo Travi (che domani sera all'Esc di Roma, via dei Volsci 158, ?dirà? Tà) poesia orale è la prima lingua, la lingua materna (...) che contiene - attraverso la lingua poetica - il bisbiglio. La lingua materna come matrice della lingua poetica è tema fondamentale nella poetica di Ida Travi, non si può prescinderne se si vuole entrare in sintonia con Tà. Come dice Travi: credo che ognuno porti impressa in sé la traccia di quell'incredibile esperienza che fu l'ascolto delle voci fuori, quando ancora eravamo molto piccoli e la nostra vita assomigliava ad un interno lattescente.

           Ecco lo spiraglio. Ecco la neve.




Il Manifesto 4 maggio 2011
Franca Rovigatti

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'Omaggio a Ida Travi'
di Vincenzo Vitiello 
 presentazione per  Salotto Caracci settembre 2011


 Difficile entrare nel cosmo poetico di Ida Travi, che, aperto a tutte le voci del mondo, tutte le accoglie trasvalutandole. Non è l’operazione comune all’uomo come all’animale, come alla pianta, l’operazione che è propria della vita, che cresce su se stessa nutrendosi dell’altro da sé; neppure è l’operazione che l’ermeneutica contemporanea ha teorizzato come ‘fusione di orizzonti’, che si attua nel dialogo tra uomini, appartengano essi alla stessa età o non, alla medesima storia e civiltà o non. È qualcosa di profondamente diverso, ché Ida non assimila l’estraneo a sé, all’opposto, tenta di farsi estranea con l’estraneo, e così lo trasvaluta, lo rende altro da quel che era, rendendo se stessa altra da sé. Perciò quando dialoghi con lei, hai la sensazione che ti penetra nell’anima, e quel che hai detto, te lo restituisce cambiato, diverso, non dico più profondo, certo più intimo. Dopo che hai parlato con lei, ti senti legato alla tua parola: ecco son io, quel che ho detto son io. Sono la mia parola. E invece è il dono che lei ha fatto a te. La tua parola te la restituisce ‘più’ tua.
            In  – libro non difficile, difficilissimo – l’operazione è più complessa. Hai immediatamente l’impressione che Ida non abiti più il tuo mondo, il mondo di tutti e di ciascuno. In certo modo questo mondo – il comune, quotidiano mondo in cui ci muoviamo, pensiamo, viviamo – non c’è, non c’è più, posto che mai ci sia stato. E non è che ce ne sia altro. Le parole di questa “poesia dello spiraglio e della neve” sono le più comuni ed usuali, sono le parole d’ogni giorno: pane, casa, porta, pettine, ramo, sasso, cappotto…, la meno usuale è “calendula”, il nome di un  fiore; e comuni, sommamente comuni, quotidiane, sono le frasi, nelle parole, nell’accento, nella sintassi: “Sta’ bene a sentire, quando torno a casa / non voglio vedere quella faccia”.
            Cosa v’è di ‘poetico’ in questa frase? “Ci vuole un bel coraggio / per questa poesia: sono capaci tutti” – così Ida, parlando di sé, meglio: parlando di questo suo ultimo libro di poesie.
            Cosa c’è di poetico in questa frase? Rispondo con le parole di Paul Klee, che all’osservazione di una signora: “Maestro, anche mio figlio di sette anni sa fare disegni come i suoi…”, replicava: “Bisogna vedere, Signora, se saprà farli quando ne avrà cinquanta”.
            C’è da credere che quella signora fraintese affatto la risposta, scorgendovi l’ennesima riproposizione della ‘poetica del fanciullino’. Klee, per contro, aveva detto, adeguandosi alla simplicitas della sua interlocutrice, che la poesia – quale sia la forma che volta a volta si trova ad assumere – esige l’abbandono del comune e del quotidiano, della logica ripetitiva, abitudinaria del ‘buon senso’. L’abbandono della ‘storia’. E della ‘cultura’.
            Ma Ida Travi sembra proprio affidarsi al comune e quotidiano, al più comune e quotidiano, al punto che quando sembra levarsi fuori da tutto ciò,  e-levarsi: “Entrerò nelle tue orecchie / dormirò nelle tue mani // Sale il bisbiglio / rampicando fino in cielo…”, subito si piega su di sé, si volge al basso, cade, cade su di sé: “Cosa fai, benedetta figliola / ti metti a sognare, adesso?”

            In ciò il ‘segno’ di Ida Travi: nel contrastare la parola comune con la parola comune, il quotidiano e ripetitivo col quotidiano e ripetitivo, il buon senso col buon senso, in tal modo accantonando ogni pretesa di ‘novità’. E di originalità. 
            Il mondo è ciò che Ida Travi porta, completo, senza residui, nella sua poesia.  E il tempo, il tempo del mondo: tutt’intero, senza resti. Ma il mondo com’è: non l’ordine della parola, non  il cosmos, e neppure il caos. Ma entrambi, perché entrambi fanno mondo.
           
            “Si lancia su per il cielo

            benedetto il suo vuoto in cielo
            benedetto il suo nastro giallo

            sfilano i decenni
            sfilano a passo d’uomo

            benedetto il suo vuoto in cielo
            benedetto il suo nastro giallo.”

            Viene spontaneo pensare: comuni sono le parole, e quotidiane; di buon senso i loro nessi immediati, all’interno di una singola proposizione; non comuni, e senza senso le relazioni tra le frasi, i rapporti di un distico con quello che segue, tra una strofa e l’altra. Ma non è proprio così. Anche tra le strofe più lontane puoi trovare nessi nascosti, o, forse, ‘inventarli’… Sì, anche ‘inventarli’.
            Ma non è questo che conta in questa poesia che certo vuol liberare il comune dal comune, liberando le ‘cose’ dai nessi del pensiero, dall’ordine della logica – dalla pretesa umana, troppo umana, solo umana di legare il disperso, di costringere all’uno il molteplice.
            “Gli antichi greci con Tà annunciavano la natura plurale delle cose e degli esseri del mondo”. Così leggiamo nell’ouverture dell’opera, che ci rimanda all’esergo di Fontana “C’è l’infinito là dentro…”, ed all’immagine di copertina. L’infinito non è la totalità che tutto comprende: l’in-finito è il non-finito, l’incompiuto che toglie compiutezza e finitezza alle cose, che rende molteplice il singolo, che rende dividuo l’individuo. ‘Infinito’ sono i tagli di Fontana che rinviano a un ‘di là’ che non è oltre le cose, e fuori, ma ‘dentro’ le cose, nel loro ‘essere’.
            E qui si rivela – a me, ed è una rivelazione affatto singolare, che non ha pretesa alcuna di valere per altri, e tanto meno di dire cosa veramente significa Tà poesia dello spiraglio e della neve –; e qui mi si rivela il ‘senso’ della parola poetica di Ida Travi, la sua essenza, ciò che la costituisce: lo sguardo, non il neutro vedere, ma lo sguardo, il suo sguardo che ti affascina e insieme ti inquieta, perché nella sua chiarità, come d’acqua o d’aria, sonoesistono “la mela, il pane e il cucchiaio” – e casa, porta, pettine, ramo, sasso, cappotto, calendula … – e non sai se è lo sguardo che attraversa le cose, o non piuttosto le cose che attraversano il suo sguardo.

            E qui non c’è più da capire, da riflettere, da pensare. Capire, riflettere, pensare appartengono al passato, ai tentativi compiuti per entrare nel mondo di questa poesia. Quando ne sei dentro – posto che ne sei dentro – capisci che non c’è più da capire, c’è da sentire. Sentire, che non è sentimento – l’abusato sentimento poetico – ma senso, senso della Terra, senso di un’appartenenza più profonda d’ogni comunità; senso di una partecipazione che non abbandona l’umano, ma è oltre l’umano; senso di una prossimità non esprimibile con il “con”, il “cum”, il “syn, il “Mit”; di un’appartenenza che dice: “essere-accanto”, Neben-sein. Essere-accanto a uomo e animale come a fiume ed albero, a foglia e sasso, a vento e pioggia; come a muro, e ferro, e ruggine…

            “Guarda come indietreggia il bambino
            davanti al rocchetto nero…

            Chiamalo, dàgli l’insegnamento

            Sei l’ombra sul muro
            Sei la ruggine sul ferro

            Gli animali sono felici – diglielo –
            gli  animali amano il bambino nuovo

            Li vedi? Escono dai nastri saltellando

            Escono dai nastri saltellando sulle zampe felici
            sono altissimi, altissimi…”

            Ma non è solo felicità:

            “Nella luce del vero amore
            vedrai gli orribili insetti neri
            e con la lampada alzata verso sera
            con tutti quei puntini, aspetterai
            in piedi sulla porta, aspetterai,
            il passo argento, il buio della sera.”