Ida Travi: nota di Francesco Marotta, saggio conversazione di Alessandra Pigliarudi ALESSANDRA PIGLIARU


Radio Popolare Verona
104 Mhz
luglio 2010

Non un libro ma un link 
che ci riporta alle opere di Ida Travi attraverso la sensibilità critica 
di Alessandra Pigliaru 
e l'introduzione di Francesco Marotta

Alle prese con uno dei percorsi poetici e artistici più suggestivi, originali e fecondi della letteratura italiana contemporanea, quale quello che Ida Travi viene disegnando ormai da anni (a dispetto della critica accademica, dei suoi limitati orizzonti e dell’obsoleta autoreferenzialità dei suoi strumenti d’indagine, ma nel rispetto più totale da parte di tanti poeti, artisti e filosofi che hanno eletto la sua opera a termine di confronto ineludibile), Alessandra Pigliaru ci regala, con la profondità di analisi delle sue note di lettura e delle sue intuizioni critiche, un saggio che, pur circoscritto al confronto con le ultime prove dell’autrice, ha il valore di una vera e propriamappa ermeneutica della sua produzione complessiva, capace di illuminare le ragioni profonde che ne animano la scrittura, tanto sul versante creativo che su quello della ricerca teorica. 
Ciò che emerge all’abbraccio dello sguardo di chi legge è il respiro carnale, antico e sempre nuovo, di una visitazione che lascia tracce della stessa natura dei paesaggi attraversati; una costellazione di segni e di indizi che orientano tra le pieghe e gli anfratti di un corpo-parola che declina coordinate e accenti inconsueti per e sulle rotte del pensiero; il colore, la forma e il suono della quiete e del moto, dell’ombra e della luce che si rincorrono fino a riconoscersi e a confondersi negli specchi di unanominazione che non distingue; l’eco indefinibile e inafferrabile dei margini sottratti, tentati ed esplorati con la tensione aurorale, la levità e il doloroso stupore del primo passo; il rovesciamento azzerante deiconfini linguistici dati, attraverso l’utilizzo, in chiave di contrasto, di un alfabeto erratico, metamorfico, che è voce di un silenzio interrogante, parto inesauribile di livelli molteplici di significazione, alternanza di mondi albeggianti o declinanti, fraterna adesione al ritmo segreto e al trascorrere delle cose nel mistero intangibile dellafinitudine, febbre elementare delle origini che permea e indirizza ogni sapere, ogni approdo sperato e il suo umanissimo rivelarsi e sciogliersi in altri versanti di un unico cammino. Ciò che emerge è questo: questo dire, questa voce che dalle pagine di Ida Travi ci chiama, ci mostra il nostro volto perduto, ci parla dalla sommità o dall’abisso, nella vertigine di una comune, inesprimibile domanda. (fm)


Alessandra Pigliaru
Il corpomente della parola.
Saggio-conversazione intorno alla poetica di Ida Travi

     1. L’aspetto orale della poesia
La tazza e lo schiudersi della bocca. Il mondo nella tazza o il gesto dell’aprire le labbra verso l’altro da sé? Qualcosa è sempre stato lì, nel fondo, racchiuso come ad aspettare che qualcosa accadesse. Il gesto salvifico è quello di bere da quella tazza anche i precipizi della Storia, quei vuoti che gridano l’assenza. Essere capaci di dissetarsi e, al contempo, guardare nella cavità della tazza, è l’alchimia della scrittura, di quella poetica in particolare. Così suggerisce Ida Travi nel suo denso e suggestivo saggioL’aspetto orale della poesia. È un’assenza che non comporta mutilazioni ma traghetta per sincopi; si fa ascoltare, come una quiete che perdutamente appartiene e si trasfigura in tutti i nomi del mondo. Si nomina e si muore. Così la parola scritta, a toccare il vuoto della tazza, accoglie e si fa segno.
«Dal drappo che la scrittura stende sulla coscienza si ricava la benda per gli occhi, dalla benda per gli occhi i panni per le ferite della coscienza. Nell’oscurità degli eventi “il vivente”, l’eroe della tragedia fuso col suo spettatore, di traccia in traccia va in cerca della verità. Il cercatore di verità è destinato a non trovare asilo. Proprio anelando alla quiete, ci rinuncia. Il suo linguaggio non può essere che un enigma o il sintomo di un trauma.» (Travi 2000¹, p.13, 14)
Neo è la soglia tra Eros e Thanatos. Il cominciamento di ogni dicotomica diade: la lingua, il corpo, il suono, la parola. E anche il soffio del Tutto che pre-cede. Si accorda alla luce quel soffio, all’evaporazione di ogni incontrovertibile certezza e si trattiene nell’entrata-al-mondo. In quell’esitazione non si aspetta solo ciò che tarda ad arrivare ma il suono, potremmo dire quasi primordiale, di chi non ha ancora – o non ha più – difese. Il sogno in questo senso è zona liminare, l’intermittenza dell’occhio che sa sostenere il giorno e l’ombra ma che, nel balbettio, non riesce ad accendere il fuoco: non è affar suo. È nella scrittura che la matassa si dipana e il luogo diventa quello della testimonianza oculare – come pupilla che intrattiene il ritmo del tempo. Albeggiare sul limite del venire-al-mondo illumina proprio quell’intermittenza, quella presenza-assenza che può evolversi in due modi: quello di una lingua convenzionale (chiamata impropriamente madrelingua) e quello invece della prima lingua, la lingua materna appunto che contiene – attraverso la lingua poetica – il bisbiglio.
La ragione fende il sogno; procura una deflagrazione senza possibilità di appellarsi tuttavia a chi ne custodisce la porta. Ciò che la poesia orale serbava in sé come unione di segno suono e significato viene salvato nella trasfigurazione del passaggio dal dentro al fuori, dal vuoto indistinto di ciò che accade a chi ancora, aperti gli occhi, non vede.
Aprire gli occhi per la prima volta e chiuderli per un’ultima sono i movimenti fondamentali che restituiscono a ogni esistenza la sua dimensione naturale, cioè rispetto all’ordine delle cose, non tragica. Ma prima di quel movimento fondamentale, la madre avvierà un incredibile parlare al cieco (…) è il parlare dissennato di chi con la voce non smette di spiare gli occhi, d’un piccolo o di un vecchio, d’un altro. È il parlare inconsulto di chi usa la voce come fosse una leva per le palpebre chiuse. [Ivi, p.69]
Nella relazione primordiale che viene a crearsi tra neo-nato e neo-madre si assiste ad una trasposizione della oralità della poesia:
La lingua materna è condannata perché è concreta, non astrae. Perché è dinamica, narra per eventi, dice e quel che dice lascia subito scomparire. Va avanti, non si sofferma. Lascia andare sia il trionfo che l’orrore. Come la poesia epica. Tenta il superamento del tragico affidandosi al divenire anziché all’immobilità dell’essere. [Ivi, p. 38]
Nella voce della madre, come nella poesia epica, alberga il suono che in-canta, che stordisce perché racconta le cose al dritto e al rovescio, ci gira intorno e non è schiava del significato né di alcun dominio. È lingua che parla talmente piano da non distinguere, lavica desiderante e taumaturgica. La traccia della lingua materna dimenticata è vicina al passaggio dall’oralità alla scrittura poetica, allo scarto cioè tra ciò che è in tumultuoso divenire e ciò che è. L’inaridimento viene evitato dalla possibilità (che al poeta è riconosciuta per eccellenza) di conservare quella voce attraverso lo scavo della parola. 
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Il corpomente della parola
di Alessandra Pigliaru