Esercizi di rinuncia nei versi di Ida Travi
di Chiara Zamboni
Qual è il modo giusto per vivere il nostro tempo, il tempo
presente che ci avvolge, rispetto al quale molti rimangono indifferenti e ciò
costituisce non la loro ma la nostra vergogna? Questa domanda è il filo
orientante del testo poetico di Ida Travi, Il
mio nome è Inna. Scene dal casolare rosso (Moretti & Vitali 2012),
commentato con molta finezza da Alessandra Pigliaru nella postfazione. Questo
filo, certo, non è espresso esplicitamente ma è coglibile di pagina in pagina.
Ida Travi ci propone un esercizio di alterità all’interno del presente, non nel
senso di rifugiarsi in un altro mondo diverso dal nostro, piuttosto, rimanendo
in questo, mettere in atto un esercizio di spoliazione. Questo gesto non va
confuso con un percorso di ascesi. È invece un passo indietro, un denudamento
che è contemporaneamente un dire sì al mondo. Disfarsi del superfluo e benedire
la realtà, questo è l’essenziale di Il
mio nome è Inna.Il dramma di questo tempo presente viene mostrato in diverse
sfaccettature come nei riflessi di un prisma. Inna abita il casolare rosso
assieme al bambino, alla vecchia e all’uomo: ecco il luogo dove veniamo
invitati a seguire Inna nei suoi gesti quotidiani che sanno aprirsi al mondo e
contemporaneamente disfano ostinatamente le maglie soffocanti, intessute
ferocemente da chi fa solo quel che gli pare e tutto gli pare niente perché ha
sciolto il vincolo di dipendenza dalla realtà. Non gli rimane tra le mani che
polvere.
Il primo esercizio di spoliazione è rinunciare alla lingua
superflua. Al dire tanto, tutto quello che viene in mente. Al dire e dire. Ida
Travi riprende qui uno dei suoi temi poetici più importanti, già espresso in L’aspetto orale della poesia, e cioè il
legame sorgivo, fertile con la lingua materna, la lingua delle parole semplici,
che ci pongono in rapporto con le cose concrete, che assumono una qualità
sacra. È Inna a dire: “Vivo come prima della scuola/con la sedia girata/contro
il muro/(…)ma conosco il mio nome/so bene dov’è il mio petto/- il libro, il
cucchiaio/la zappa, il catino”. Parole quotidiane. E anche: “Ho poche parole e
m’arrangio con quelle/non voglio far torto a nessuno/non voglio incantare
nessuno”. Questo liberarsi dal superfluo non salva, lei dice, dalla notte,
dalla mancanza di un orientamento e di un senso. E’ avvolto dalla notte sia chi
usa troppe parole dicendo quel che vuole senza radici, sia chi compie questo
esercizio di spoliazione linguistica. L’uso della lingua materna non ci porta
immediatamente salvezza, ma è la via principale che conduce ad un esercizio di alterità
nel mondo. Questo crea effetti di scrittura. La risonanza poetica di questa
lingua allusiva e concretissima è qualcosa di toccante. È ciò che rimane più
impresso leggendo queste poesie di Ida Travi. Lo stile della lingua indica uno
stile di vita.
Molti sono i temi mistici in questo dramma poetico. Penso
innanzitutto al ritirarsi nella casa rossa, nella stanza segreta, per far
affiorare – facendo vuoto - in modo più autentico il mondo. Nella mistica
tradizionale ciò porta all’incontro con il divino, qui l’incontro desiderato –
mai certo - è con la realtà.
In questo senso si percepisce Il mio nome è Inna come un esercizio indirettamente politico. Di
una politica che implica accogliere tutto il mondo nel segreto più intimo e
restituirlo alla visibilità in modo da offrire a sé e agli altri vie nuove da
seguire. Condivise. Stessa risonanza ha l’altro grande tema mistico della
dialettica tra la notte e la luce: dove c’è notte, c’è attesa della luce. Anche
questa attesa di segni nuovi, di modificazione, è ciò che la poeta può offrire
alla sua epoca. Offerta di cui avverto l’aspetto indirettamente politico. È una
politica esperienziale di radice femminile.
Leggendo Il mio nome è
Inna ho trovato somiglianze con il mito di Inanna. Della dea che per
scendere agli inferi e ritrovare la vita si spoglia di tutti i propri segni
regali. Ora, in questo spogliarsi la tessitura della poesia di Ida Travi si
coagula attorno ad altre diverse gemme preziose, costituite qui dai colori, che
si caricano di un forte simbolismo. Il rosso del casolare, della luce
dell’interno, rosso alchemico e segreto. Il verde della paura, il blu del
benedire, il bianco della neve, sospensione enigmatica del tempo. Nel mentre
che la lingua si spoglia, si accendono i colori con una forza e una qualità
orientante. Come stelle polari.
il manifesto 2012.12.15 - 11 CULTURA
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