Corriere del Ticino
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CdT.ch. - Cultura 27.08.2015
Quando la scrittura è una voce che arriva dal 'basso continuo'
(Laura Di Corcia)
Nel nuovo saggio dell’autrice italiana Ida Travi si analizzano le relazioni tra poesia, oralità, cinema e teatro
Calvino
parlava di leggerezza. Chi legge e frequenta la letteratura, quella vera, sa
che non di sole piume vive l’uomo, ma anche – e soprattutto – di pietre. Ecco, Poetica del basso continuo. La scrittura, la voce, le
immagini. (Moretti&Vitali,12 euro) di Ida Travi è un libro sulle pietre: su quella
forza grave e misteriosa che fonda il nostro esistere, su quel rumore di fondo
che ci riporta al centro delle cose (e di noi stessi). Partendo dal concetto di
basso continuo di Kleist, Ida
Travi, capace di mescere presente e passato in una poesia fra le migliori
presenti nel panorama italiano contemporaneo, parte per un’esplorazione cauta
ma al contempo sicura, del territorio della letteratura, andando a bussare
alla
casa dell’essere di heideggeriana memoria e ricavandone suggestioni e
intuizioni ascrivibili al fecondissimo pensiero poetante nel
cui alveo si sono mosse molte Autrici (maiuscola d’obbligo) femminili, come
Maria Zambrano (citata a un certo punto nel libro), ma anche Cristina
Campo. “Seduta sulla panca d’una chiesa
anche a me è capitato di sentire sotto sotto una musica in salita verso Dio
qualcosa di basso e ripetuto, anche un po’ ossessivo, qualcosa che si poteva
misurare facilmente, qualcosa di molto imparentato al battito del cuore” –
scrive la poetessa all’inizio del saggio, aggiungendo che “sotto sotto in
quella musica alta c’era qualcosa di tenace e di ostinato, un grumo di evidenza
e di mistero”. La poesia che obbedisce alla legge di gravità, che “ha un suo
modo di aderire a un preciso punto della terra” riassume in se i riti e i gesti
appresi sin dalla nascita: stare a tavola, mangiare, spezzare il pane. E cosa
c’entra con la madre? La madre è colei che sa tutto e non sa niente, è piuma e
pietra, va e viene, dice una cosa e se la rimangia. Accoglie, e al contempo
respinge. Così gettati (Heidegger, di nuovo) in un mondo rotto che zoppica e
non sta fermo, ci si sporge (come la poesia di Antonia Pozzi, citata nel libro)
si rischia, si gioca fino in fondo l’azzardo del linguaggio. “Spezzare il pane
è un gesto definitivo e spaventoso perché ciò che è spezzato non è più unito,
ma bisognava pur fare le parti.” La strada non è mai una retta, è sempre
biforcuta, come ci insegna la tragedia greca (dramma deriva dal greco ‘drao’,
che significa anche scegliere). Allora si scrive: si scrive di fronte al padre,
si scrive per imitare la lingua della madre che canta e inventa le parole, per
recuperare l’oralità (assistere a una lettura di Ida Travi è un’esperienza
unica – questo per dire che la poetessa sa di cosa parla), per porsi di fronte
a un coro come nei teatri della Grecia antica e per spezzare il corto circuito
senza via d’uscita del ”Discorso pubblico”, la cui lingua 2Sembra vincente solo
perché è chiusa”. Sì, “La Società di Discorso chiude, non lascia parlare, la
scrittura di questa Società di Discorso zittisce l’altro”. Ma esiste la parola
poetica, che “si ribella, forza il Discorso chiuso, apre un varco, sia nel
passato che nel futuro”. Come? Tornando alla terra, scendendo da cavallo. I
poeti, come i personaggi che popolano i libri di Ida Travi, i Tolki, sono
“lavoranti che hanno assunto su poeticamente in sé il peso d’un linguaggio
ridotto al necessario, duro come una colpa, leggero come una liberazione.” In
questo lavoro di scavo, in questa ricerca delle radici, del pane, della parola
autentica, arrivano anche loro, le immagini: arrivano come ombre di noi stessi,
fantasmi,; vengono da sopra e da sotto, dal teatro e dal cinema. Si siedono
vicino a noi e hanno in comune con noi una cosa: la parola. Questo è il posto
dove dobbiamo tornare, questo ciò da cui dobbiamo fuggire.; di questo grumo
necessario e sghembo si sustanzia ogni scrittura.”
(Laura Di Corcia)
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